Fine del carnevale. Tempo di maschere, dunque di “doppi”, di ciò che nascondendo si vuole invece mostrare. Del resto l’immagine che abbiamo di noi si confonde di continuo con quella che spacciamo agli occhi degli altri. E non esiste la sola forma (la maschera) che l’io dà a se stesso; ci sono poi le forme che ogni io dà a tutti gli altri. Così che – Pirandello docet – in questo gioco di moltiplicazione l’io perde la propria individualità, da “uno” diviene “centomila”, quindi “nessuno”. Inquietante per certi aspetti; rassicurante per altri, laddove porta a riflettere sul perpetuo movimento della vita e della realtà, incessante divenire da uno stato all’altro.
«Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla meraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.»
[da Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello]