Dopo un lungo inverno di solitudine, finalmente, la bella stagione era arrivata! La primavera era trascorsa in modo piacevole, sì, ma quel mese di giugno, per Olga, significava qualcosa di speciale, la compagnia delle sue nipoti, Gaia di dieci anni e la piccola Emma di sei. Vedova dall’anno prima ed afflitta da una tristezza altalenante, aveva atteso quel momento con trepidazione, le visite invernali non le avevano mai permesso di godersi in maniera adeguata le sue principesse. I quattro le apparivano in “toccata e fuga”: suo figlio frettolosamente la salutava, si lamentava del lavoro, faceva due o tre domande per mostrare interesse verso come lei trascorresse il tempo e, in genere, concludeva facendole i complimenti per i biscotti fatti in casa, dopo averne sgraffignati e sgranocchiati due o tre, trovati a colpo sicuro nella solita scatola di latta di quando era bambino. Sua nuora non staccava gli occhi da quel maledetto smartphone per tutto il tempo: sempre impeccabile, impegnata e distante, era solita chiamarla “mamma”, però senza dare il giusto valore alla parola, lei che la sua l’aveva persa da tempo, lei che mamma era a sua volta, ma sembrava amare più quel coso della famiglia che aveva attorno.
Le bambine, loro sì che le donavano sorrisi entusiasti e sinceri:
“Ho preso un bel voto a scienze, sai nonna?”, le raccontava Gaia. “Se ci sarà il sole, la prossima volta, possiamo passeggiare nel bosco e raccogliere le foglie? Così tu mi dici di che piante sono e le classifico!”.
“Io ho imparato a leggere, sai??!”, quasi urlava Emma per prevalere sulla sorella ed attirare l’attenzione dell’anziana. “… E
nonna si scrive con la doppia enne!”.
“Brave, brave le mie piccine!”, si complimentava sorridendo, mentre le si inumidivano gli occhi. “Se il babbo e la mamma vorranno, la prossima volta andremo insieme nel bosco, o faremo una passeggiata per i campi”.
Fu durante quell’ultima toccata e fuga che sua nuora uscì improvvisamente dagli schemi, rivolgendole parola e con un inaspettato argomento:
“Ci saranno molte occasioni, mamma…”, intervenne senza staccare gli occhi dal coso. “Eeeh, invio… Noo! Benedetto correttore automatico! Dicevo…”, e degnò la suocera di uno sguardo. “Giulio stava per comunicarti che a lavoro è un gran caos e non è detto che potremo andare in ferie, avevamo pensato di lasciare le piccole qui da te, se sei d’accordo: i nostri amici pagano per andare negli agriturismi e più agricolo di qui! Le bambine si ritrovano questa fortuna e non ne hanno mai usufruito. Quest’anno, sfortunatamente, non possiamo andare, né all’estero, né nei dintorni, quindi…”.
Olga non riuscì ad interpretare l’intervento, tanto era stato buttato là in modo asettico ed inopportuno, come quando nei film, la donna-manager ordina alla segretaria un caffè. Suo figlio ritenne necessario integrare con ulteriori parole, anche perché la moglie, data la bella notizia, si era nuovamente messa a litigare con il T9.
“Se non è un problema mamma”, e la parola
mamma finalmente suonò in modo giusto, “pensavamo di lasciartele per circa un mese, poi inizieranno i campi estivi, lì vicino casa”.
“Sarà una vera gioia, sarà bellissimo!”, e abbracciò le due creature. “Ho già in mente tante cose da fare insieme!”. Le bambine le restituirono l’abbraccio sorridenti. Trascorsero altri due mesi fatti di zero toccate e fuga e rare telefonate di circostanza, con le bambine che le lanciavano un
ciao dalla videochiamata della madre e poi correvano a guardare la tv. Finalmente giunse il giorno in cui strappò dal calendario maggio: giugno le sorrideva dalla parete, con la scritta “Emma e Gaia” che campeggiava in cima alla pagina. Spesso si era ritrovata a pensare alle tante cose che avrebbe proposto alle sue nipotine, le due femminucce, quelle con cui, fino ad allora, non aveva mai potuto giocare.
Aveva splendidi ricordi della vita in campagna con la propria nonna, vera contadina di un tempo, che aveva vissuto ormai molti anni addietro, lì con lei e la sua famiglia nel podere: Olga, bambina, aiutava la madre di suo padre a cogliere le verdure nell’orto, a chiudere il recinto dei polli alla sera, a stendere l’impasto per i ravioli fatti in casa. Quando c’era un po’ meno da fare, raccoglievano fiori di campo e li mettevano in un grande vaso di porcellana, posto al centro della madia. Il vaso, a distanza di sessant’anni, era sempre lì, con le sue decorazioni dipinte a mano a tema bucolico, ma vuoto, spento, privato della sua funzione. Da tempo non vedeva più mazzi di fiori, raccolti tra le spighe del grano maturo. Suo marito Remo non si trattenne dalla gioia, quando, sul finire degli anni settanta, venne al mondo il loro primogenito e seppe che era un maschio: aiuto in azienda, due braccia che avrebbero tagliato la legna e guidato il trattore! Lei sperò a lungo in una seconda opportunità, ma la bambina tanto attesa non arrivò, così Giulio rimase figlio unico e nessuno mai accompagnò Olga a raccogliere fiori nel campo.
Anche per suo marito la soddisfazione non durò a lungo: Giulio, divenuto adulto, conosciuta l’allora fidanzata e terminati gli studi, smise presto di aiutare il padre nell’attività di famiglia e finì col costruirsi una vita in città. Con l’improvvisa perdita di Remo, un anno prima, venne meno il lavoro nei campi e l’uso dei mezzi. Per non mandare tutto in malora, Olga aveva affittato ad un vicino i terreni e i macchinari: dall’aia lo vedeva sferragliare con il vecchio trattore a cingoli in cima al poggio, al confine con il bosco, quando era molto lontano amava immaginare che a guidare ci fosse ancora Remo, che sarebbe tornato a casa al tramonto e le avrebbe chiesto i panni puliti e la cena pronta. Il trattore, però, poi si avvicinava:
“Buonanotte Olga, per oggi s’è finito!”.
“Buonanotte Mauro, salutami Giovanna…”.
E Giovanna era al podere accanto, indaffarata per far trovare a Mauro il cambio dei vestiti e la tavola apparecchiata. Quel periodo, iniziato in modo triste, sarebbe migliorato, la compagnia delle sue bambine l’avrebbe distratta dai ricordi, quante cose avrebbe loro spiegato! Non ce ne era stata mai occasione, avrebbe recuperato anni e anni, di lei a casa sola con Remo, mentre loro trascorrevano l'estate alle Maldive o sul Mar Rosso o in tutti quegli altri posti di cui aveva un magnete attaccato al frigo.
“Ecco un altro di quegli stupidi souvenir”, pensò l’ultima volta, quando lei, abbronzata e con le unghie laccate, le porse un piccolo sacchettino di carta, accompagnandolo con il solito “Un pensierino per te, mamma!”. Le venne da ridere e si beffò della nuora ad alta voce, mentre nella cameretta allestita per le due piccole finiva di sistemare i letti, freschi di lenzuola stese al sole sotto le querce: “Niente calamita, cara bella! Ma un grande mazzo di fiori di campo nel mio bel vaso!”. La macchina sollevò una scia di polvere lungo la strada sterrata, quel segnale di fumo annunciava l'arrivo di Gaia ed Emma: seduta sotto le querce, con la veste a fiori e le mani in grembo non stava più nella pelle! Lasciò diradare il pulviscolo nel cortile e si avvicinò per aprire lo sportello alle due bambine.
“Ciao mamma!”, esordì Giulio. “Prendo le valigie e le porto nella cameretta”.
“Su è tutto pronto, letti e asciugamani puliti!”.
“Bambine scendete!”, esortò la nuora, aprendo lo sportello dalla parte opposta alla sua.
“Ciao nonna!”, dissero in coro, senza rivolgerle lo sguardo.
Non era da loro quell'indifferenza, la loro attenzione era catturata da altro.
“Emma, Gaia, non venite ad abbracciarmi?”.
La piccola corse a cingerla con un solo braccio, con l'altro era intenta a non far cadere uno di quei cosi infernali.
“Guarda nonna, guardaaa! Siamo state brave a scuola! Le pagelle erano belle! Io ho il tablet e Gaia il cellulare! Ce li hanno regalati mamma e papà!”.
“Gaia, amore... sei contenta che staremo insieme?”.
Ma Gaia stava fotografando il podere per inviarne l'immagine nella chat delle sue amiche, come si affrettò a spiegarle entusiasta, subito dopo l’ultimo scatto.
“Sai nonna che se vado su internet c'è una app che mi classifica le foglie che fotografo? Così quando andiamo nel bosco non c'è bisogno che me lo spieghi tu di che pianta siano!”.
“E perché i vostri genitori non vi hanno affidato ad una
appe che vi guardasse tutto il mese?”, pensò contrariata.
Fece per abbracciare Gaia, ma quella lesta scappò per fotografare le ortensie. Guardò lei, che come al suo solito muoveva con fastidiosa rapidità i polpastrelli sui pulsanti, gettò poi una rapida occhiata alle bambine: stava clonando le proprie figlie a sua immagine e somiglianza, corrompendole verso quell’odioso atteggiamento di continua dipendenza da quei cosi tecnologici! Provò un enorme disagio non sapendo cosa aspettarsi dalle nipoti nel mese a seguire, dopo un minuto di reale panico, con nessuna delle tre che la considerava, entrò in casa chiamando a gran voce Giulio.
“Giulio? Giuliooo? Perché le bimbe hanno quei cosi? Non mi hanno nemmeno guardato in faccia. Glieli portate via vero?”.
“Mamma, sono i loro regali per la promozione! Sai quanto sono costati? E poi sicuramente non li terranno in mano tutto il giorno, con tutte le belle cose che farete insieme…Vero che non si gioca tutto il giorno con i regali?”.
Le bambine entrarono in casa, raggiunsero la cameretta e si buttarono sui letti: dal coso di Emma usciva un’antipatica voce metallica “Seleziona– il – gioco”, mentre il flash del cellulare di Gaia stava bombardando gli angoli più insignificanti della stanza.
“La mia camera delle vacanze… il mio comodino…”. Tante manine con i pollici alzati stavano riempiendo la chat.
“Guarda nonna! Alle mie amiche piace come ci hai sistemato la stanza!”.
“Bene, mi fa piacere...”, e forzò il volto in un sorriso stringato, preludio dell’occhiataccia lanciata successivamente al figlio.
La macchina di Giulio allontanandosi lasciò una nuova scia di polvere, Olga cercò di convincersi che dopo quel primo antipatico impatto, andata via la madre, le bambine la avrebbero ascoltata senza problemi: “Darò loro delle regole: un’oretta dopo pranzo, anzi no, mezz’ora. Anzi no, li danno a me e decido io…”. Riuscì a convincerle a non portare i loro regali a tavola e glieli fece spegnere una volta messo il pigiama, a favore di una storia che volle loro raccontare per addormentarle: “Sapete bambine, voi vivete in città e avete tante comodità a portata di mano, mentre qui c'è sempre stato da faticare per ottenere le cose. Voi avete quei telefonini sempre in mano, ma quando ero bambina io, l'unico telefono del paese era alla bottega: il garzone veniva in bicicletta al podere, tagliando per il bosco, ad avvisarci che ci avrebbero richiamato! Così si andava e si aspettava la telefonata. Il pane si faceva con la nostra farina, la carne era quella dei nostri animali e le verdure quelle dell'orto. Ancora oggi nonna, finché ha salute, continua ad avere galline, conigli e nell'orto le verdure buone: da dove credete che vengano la carne e le zucchine che avete mangiato prima?”.
Emma già si era addormentata, ma Gaia la stava ascoltando con attenzione: “Noi nonna la spesa la facciamo al supermercato: riempiamo il carrello di un sacco di roba, poi ci mettiamo in fila per pagarla e io e Emma ci divertiamo ad aiutare papà e mamma a metterla sul nastro!”.
“Come si chiama la cassiera?”, chiese Olga alla bambina, lasciandola spiazzata.
“Ma nonna, ci sono tante cassiere!”.
“E come si chiamano?”.
“Mmmh... hanno il cartellino, ma non c'è tempo di guardarlo, la gente ha fretta e anche loro. E poi non si fa la fila sempre dalla solita, non abbiamo mai fatto amicizia”.
“Domani andremo a fare un po' di spesa alla bottega, raggiungendo il paese a piedi. Lì da quarant'anni c'è Renzo e siamo grandi amici: tutte le mattine mi chiede come sto, sa a memoria quale pane e quale latte compro e se arriva qualcosa di nuovo che potrebbe piacermi me lo fa sapere. Una volta quando è arrivato il latte non sono andata a prenderlo perché avevo un po' di febbre, non avendomi visto si è preoccupato, mi ha telefonato e me lo ha fatto portare”.
“Ma lui si ricorda tutte le cose preferite di tutti i clienti? Ed è amico di tutti?”.
“Qui siamo tutti amici, ci salutiamo e ci preoccupiamo gli uni per gli altri. A volte siamo un po' impiccioni, ma se una persona sta male la aiutiamo. Da quando non c'è più il nonno vivo da sola, ma sola non sono mai. Se Renzo non mi vede andare in bottega si preoccupa, io so che se sto male qualcuno verrà da me. Se non riesco ad andare dal medico all'ambulatorio, o prima o dopo che ha effettuato l'orario di ricevimento, è lui che passa da me e mi controlla”.
“La mamma tempo fa ha avuto la febbre e il suo dottore l'ha curata per telefono, poi le ha mandato il certificato via mail. Io penso di non aver mai visto il dottore di mamma...”, e con un grande sbadiglio poggiò la testa sul cuscino.
“Nonna? Domani posso fare una foto a Renzo?”, gli occhi si stavano chiudendo.
“Domani conoscerai Renzo, ma non gli farai una foto: lo guarderai in faccia, con i tuoi occhi, e ci parlerai”.
Gaia raggiunse Emma tra le braccia di Morfeo: Olga uscendo dalla stanza lasciò la porta accostata e fece altrettanto con quella di camera sua. Si compiacque della conversazione: le bambine erano sempre state attente e curiose, l'indomani sarebbero andate in paese, sicuramente le aspettava una piacevole giornata.
Il gallo aveva cantato ormai da un po', la scatola dei biscotti era pronta al centro della tavola, le bambine si stavano stiracchiando nei loro letti e si decisero ad alzarsi solo dopo il terzo richiamo della nonna.
“Seleziona– il – gioco”.
Una struffata, ma vivace Emma apparve nella sua camicina a fiori e con il tablet già acceso in mano, Gaia la seguiva ancora mezza addormentata, nonostante ciò stava controllando sul telefonino la chat.
Olga abbracciò le nipoti e immancabilmente anche il tablet e il cellulare, ancorati come protesi alle mani delle ragazzine. Indirizzò le bambine verso le sedie in quanto non stavano staccando gli occhi dai rispettivi schermi e, una volta sedute, cercò di catturarne l'attenzione, per programmare insieme la giornata e sapere cosa volessero per colazione.
“Nonna posso fotografare Renzo quando andiamo a fare la spesa?”.
“Chi è Renzo?”, chiese Emma, che la sera prima aveva udito ben poco del racconto.
“Il cassiere del supermercato dove va nonna”.
“Il proprietario della bottega dove faccio la spesa in paese”, la corresse Olga.
“Io gli farò vedere il mio tablet!”.
“Invece lascerete entrambe i vostri aggeggi a casa”, le uscì dalla bocca tutto di un fiato e con un tono che fece restare male perfino lei, ma ormai era fatta.
Ad Emma salirono le lacrime agli occhi e Gaia sbuffò come il bricco da cui stava traboccando il latte. Olga corse a spegnere il gas sotto al bricco, ma non c'era manopola che in quel momento potesse regolare le reazioni delle bambine alla sua presa di posizione. Indecisa tra il farsele nemiche fin da subito o tentare di mediare un altro po', finì con concedere alle bambine di portarsi i regali dietro in uno zainetto, ma durante tutta la passeggiata nel bosco il cellulare di Gaia suonò e per ogni volta che lo tirava fuori per controllare i messaggini anche Emma voleva poter avere accesso al suo tablet. Troppo turbata per gli atteggiamenti che non stava riuscendo a gestire, Olga non si godette affatto, come faceva di solito, i rumori e i colori che caratterizzavano quel tratto di boscaglia: le cicale, il gracidio delle rane nel vicino stagno, le ginestre, le farfalle che ogni tanto si avvicinavano a coppia inseguendosi, il grano che a un certo punto si intravedeva, ed i fiori, i suoi tanto amati fiori di campo.
Renzo accolse le bambine con un gran sorriso e chiamandole per nome: si stupirono di tanta confidenza, ma quell'uomo dalla faccia buona piacque da subito ad entrambe.
“È vero che conosci tutti tutti?”.
“Certo! E tutti tutti conoscono me!”.
Proprio in quel mentre, davanti la vetrina passò un furgone: l'uomo alla guida alzò un braccio in cenno di saluto e Renzo fece altrettanto. Entrarono poi due signore e un ragazzetto di circa quindici anni.
“Questa è Lina, ha un cane di nome Ciro. È una brava sarta e se ho da accorciare i pantaloni o allargare una giacca lo chiedo a lei. Sua sorella si chiama Vanda, fa le torte più buone del mondo, ma grazie anche alle uova e alla farina che viene a comprare da me! Lui invece è Riccardo: è bravo a giocare a pallone, anche se quando era piccolo una volta mi ha spaccato la vetrina! Tutti i giorni compra da me un pezzo di pizza e una lattina di aranciata”.
Le bambine sorrisero e guardarono la nonna, intenerita al pensiero che ci si potesse stupire nell'apprendere che gente che abita nello stesso posto si possa conoscere così bene.
“Nel nostro condominio”, ribatté Gaia, “conosciamo solo quelli del nostro piano e Marco, che sta al secondo, ma perché prende con noi lo scuolabus. Di piani il nostro palazzo ne ha dodici, mentre all'ingresso ci sono trentasei campanelli. Qualche cognome l'ho imparato, anche se quelli stranieri sono troppo difficili”.
“Noi qui abbiamo un amico che si chiama Hussein e sai come si fa? Chi non riesce a pronunciare il suo nome lo chiama Usso, così quando lo vede lo può salutare ugualmente! E lui è contento del suo soprannome”.
Olga si stava chiedendo se la giovane, ma intelligente mente di Gaia stesse recependo le piccole lezioni di vita che le spiegazioni di Renzo sottendevano. Sicuramente la fecero riflettere, fatto sta che si dimenticò di scattargli la tanto agognata foto e rimase silenziosa per un bel po'. Emma continuò a chiedere il tablet per tutta la mattinata, così glielo dette un po' prima di pranzo. Una volta mangiato, stanche per la passeggiata e per il caldo, le bambine andarono nella cameretta e si addormentarono.
Olga era confusa, non sapeva se sentirsi debole, inadeguata, esagerata o forse un po' gelosa dell'attenzione che le bambine dedicavano ai loro cosi. Decise di chiamare Giulio e gli parlò: gli spiegò che non sarebbe riuscita per un mese a lottare contro il potere che esercitavano quei giochi, gli rammentò anche che un tempo lui era stato felice, lì in campagna, perché poteva correre, giocare e anche sbucciarsi le ginocchia! E se lo aveva fatto era perché non esistevano tablet ipnotizzanti o cellulari sempre pronti a suonare. “Me le hai portate qui, facendomi il regalo più bello, ma è come se non fossero con me, finché hanno quei cosi tra le mani. Fa' che finalmente possa essere io a renderle felici, come fino ad ora non ho avuto modo di fare...”.
Una nuova scia di polvere si sollevò dalla strada a sterro, mentre l'auto di Giulio si allontanava. Le bambine si svegliarono all'ora di merenda, non si erano accorte della visita del padre.
“Sono scomparsi, nonna! Sono scomparsi!”.
Emma agitatissima raggiunse la cucina a corsa, seguita dalla sorella maggiore che già aveva assunto un'espressione contrariata.
“I vostri regali sono stati portati via, ma li ritroverete a casa, al vostro rientro. Sono scomparsi per far riapparire la vostra voglia di giocare e di guardarvi intorno: Emma, non hai visto stamani quanti fiori da cogliere? Ti ho preparato anche gli stampini per fare insieme i biscotti. Gaia, non volevi catalogare con me le foglie? È più bello guardare le cose e toccarle, che fotografarle! Come fai a ricordare i nomi delle cose e delle persone se non dedichi loro abbastanza tempo? Renzo ci conosce tutti perché ci ha fotografati dentro il suo cuore e senza cellulare! Adesso fate merenda e poi usciamo”.
Non fu facile, lì per lì, per nessuna delle tre. Ma, fortunatamente, le menti giovani delle bambine rimpiazzarono presto segnali luminosi, suonerie e icone con raggi di sole, canti degli uccelli e colori della campagna. E che bello quel mazzo di fiori, finalmente dentro al vaso!
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"