The spider’s touch, how exquisitely fine!
Feels at each thread, and lives along the line.
Alexander Pope, An Essay on Man
1 – I ragni e l’infanzia
Ho sei anni. Sono in montagna. I miei genitori hanno preso in affitto un appartamento in questo edificio molto grande, un complesso di case. Forse una volta è stato un convento, dice mio padre. Muri in pietra, ogni pietra un lichene; muschio su quelle più basse. Nel nostro cortile, sedie di lamiera traforata e un tavolo di pietra attorno al quale tre massi fanno da sgabelli.
Mia madre mi indica un bambino, nel giardino della casa sull’altro lato. Lo vedo alla distanza, ha una tuta, anzi un toni, marrone. Ha la tua età, dice mia madre. Il bambino non mi ispira fiducia. Mia madre mi porta giù. Parla con la madre del bambino. C’è forse un complotto. Il bambino mi guarda storto, ha il naso sudicio. Su uno scalino di pietra, in fondo, gorgoglia e ridacchia una lattante. Ha i capelli neri, come il bambino lì davanti a me. Sento sopra di me le chiacchiere di mia madre con la madre del bambino. Il bambino mi chiede se voglio vedere i sassi che ha raccolto. Dai, vai a vedere i sassi che ha raccolto Federico, dice mia madre.
Venti minuti più tardi siamo migliori amici. Le nostre madri ci permettono di stare non solo in giardino, ma anche di passare sotto a un buco nella rete che c’è sul lato sinistro e andare nel greppo accanto alla casa. Oltre il greppo c’è una siepe di tasso che protegge il cortile di una villa buia, dove non andiamo. Giochiamo nel greppo. Ci lanciamo giù su delle tavole di compensato, cadiamo e ci ributoliamo nella rena. In fondo al greppo c’è una strada. A sinistra la strada si ferma quasi subito e c’è una casa, ci abita un bambino di poco più grande di noi. Ha una camicia a quadretti rossi, scarponcelli ai piedi. Ci guarda male. Noi pure lo guardiamo male. A destra invece la strada continua. L’unica automobile che la percorre in uno o nell’altro senso è la R4 del nonno del bambino. A volte, seduto davanti come un grande, c’è anche lui. Passa e ci guarda male da dietro il finestrino.
Ogni giorno esploriamo un pezzo di strada in più. Molto a destra la sterrata sbocca in una strada grande, asfaltata. È la statale, dico a Federico. Lui mi guarda. Se vai in su arrivi a Vallombrosa, gli dico. E se vai in giù?, mi chiede, ma mio padre non mi ha mai parlato di cosa succede se vai in giù. Arrivi a Montevarchi, butto là.
Le automobili passano veloci, lì. Ci fermiamo, ne guardiamo sfrecciare un paio. Quando facciamo per tornare sui nostri passi, notiamo una macchia di ortiche, proprio dove la sterrata fa angolo con la statale. Una poderosa spuma d’ortiche, e le più grosse, in mezzo, sono molto più grosse di qualunque ortica tu possa incontrare da sola. Dietro la macchia, un alto muro. Ti immagini a cascare da lassù e finire in mezzo alle ortiche, dico. Federico si avvicina alla macchia e mi dice: guarda.
Quasi tutte le piante d’ortica hanno sopra un ragno. Molte ne hanno due, alcune anche tre o quattro. Stanno lì fermi sulle foglie più grandi. Sono ragni dal corpo a bottone, giallo con una striscia nera in mezzo, le zampe lunghe e fini.
Nei giorni successivi è un via vai continuo alla “ragnaia”. Dal cortile andiamo nel greppo, scendiamo coi compensati, guardiamo male il bambino in camicia, facciamo tutta la strada, arriviamo alla ragnaia, preleviamo i ragni, li mettiamo dentro a delle caraffe che prendiamo a mia madre, li riportiamo al cortile, mettiamo le caraffe sul tavolino di pietra. A volte nelle caraffe c’è un residuo di miele e i ragni ci restano impiastricciati con quelle zampe sottili. Usiamo anche una scatola da scarpe, senza neanche metterle il coperchio: questi ragni sono lenti e prima che ce la facciano a uscire siamo già tornati da un altro giro alla ragnaia e li spingiamo di nuovo giù prima di buttare dentro i nuovi. Siamo così orgogliosi della ragnaia che un giorno lo diciamo anche al bambino lì sotto: abbiamo la ragnaia! Quello ci guarda male.
Prendiamo moltissimi ragni e li portiamo su, stiamo in cortile a giocare coi ragni. Li facciamo scappare e li catturiamo. Facciamo percorsi per i ragni. Smontiamo i giocattoli più grossi, ci mettiamo i ragni dentro e li guardiamo mentre cercano di uscire. Proviamo a dare delle formiche ai ragni, ma i ragni le ignorano e quelle scappano via. Proviamo a staccare una zampa a un ragno e lo guardiamo camminare appena un poco fuori asse. Proviamo a staccare due zampe a un ragno. Tre zampe. Un ragno a cui abbiamo staccato tutte le quattro zampe di un lato arranca in diagonale. Guarda questo, fa Federico. Guardo il ragno a cui ha staccato tutte le zampe. Guardo sulla pietra quel povero bottone giallo e nero.
✴
Ho otto anni. Al mare nel primo pomeriggio non si esce, fuori il sole schianta la città, fa sudare veleno agli oleandri e scalda le radici dei pini, che escono e fanno saltare i marciapiedi. Abitiamo da una signora che in estate affitta la casa e va a stare nei fondi. La signora ha un marito che l’anno scorso è morto. Aveva grandi piedi nei sandali e occhiali da sole fumé. Girava in giardino, fumava moltissime sigarette. La stanza dove gioco è il suo salotto, si capisce perché ci sono molti posacenere, e in un cassetto anche una scorta di Merit. Noi mangiamo in tinello, dove c’è un quadro che secondo mia madre ha un valore, perché la signora che ci affitta la casa lo ha vinto a bridge a un’altra signora che abita due strade più in là, che aveva il marito pittore e si è ritrovata povera e allora si gioca i quadri oppure se li vende per un nulla. Quello che c’è in tinello rappresenta una specie di laguna. È il lago di Massaciuccoli, dice mio padre.
Gioco con i Transformers. Ho molti Transformers, mio padre mi fa una specie di concorso in cui per ogni cosa buona che faccio prendo dei punti oppure ne perdo in caso di azioni cattive, ma è un arbitro più che benevolo e questa evenienza è quasi impensabile. Quando raggiungo tot punti posso ottenere dei premi, oppure avanzare fino a ottenere il premio finale. Punto sempre e solo al premio finale, e chiedo sempre uno dei combiner, quei grossi robot composti da cinque Transformers. Pentacar, con cui sto giocando in quel momento, è composto da Transformers che divengono rispettivamente una Porsche, una Lamborghini, una Tyrrell da Formula 1, una Ferrari 308 e un tir, che forma il corpo centrale del robot gigante – le altre auto sono gli arti.
Qui a Viareggio c’è un bambino che ha anche più Transformers di me, nonostante io non faccia altro che comportarmi bene e chiedere in cambio Transformers. Ha anche i Gi-I-Joe (che io non ho), i Masters (dei quali ho solo Skeletor, Moss-Man e Modulok) e qualunque Playmobil sia mai stato stampato. Si chiama Tommaso, ha una testa grossissima e sta con i nonni in una casa simile alla nostra, ma senza una padrona nei fondi. Non so se i suoi genitori siano morti o cosa, fatto sta che vive con questi nonni che gli comprano qualunque cosa. E infatti ha anche Predaking, il combiner più grosso di tutti, che non ho mai osato chiedere a mio padre perché: a) a differenza degli altri non viene venduto anche in una scatola unica, ma lo puoi ottenere solo comprando tutti i singoli Predacon. b) un singolo Predacon costa 35.000 lire. Per capirci, le singole auto di Pentacar ne costano 9.900. A volte al pomeriggio vado da lui, ma non giochiamo a Transformers: giochiamo a videogame perché al mare non ho il computer mentre lui ha l’Amiga con Bard’s Tale e Tass Times in Tone Town.
Se non vado da Tommaso gioco in casa perché in giardino spesso c’è la signora e non mi piace incontrarla. L’anno prima, che era il primo anno in cui affittavamo quella casa, ci andavo spesso perché il marito della signora aveva una tartaruga. Ma quest’anno che non c’è più il marito, non c’è più neanche la tartaruga.
Gli avvolgibili sono abbassati per il caldo; l’impiantito di marmo è fresco. Sul tavolo una brocca d’acqua, i resti di tre cubetti di ghiaccio che vanno a scomparire. Mia madre e mio padre non ci sono.
Se i Transformers hanno un difetto, è che se li trasformi in modalità automobile, o camion, o ruspa, e poi li lanci, fanno poca strada. Non come una Hot Wheels o una Micromachine, per capirci. Si arenano quasi subito, oppure curvano e si fermano. Giusto la Porsche di Pentacar va un po’ meglio. Vado in cucina, prendo l’oliera, la porto in salotto. Le olio le ruote, ma dall’oliera esce troppo olio e fa una chiazza per terra. Vado a prendere un panno e asciugo l’olio, ma sul verde del marmo rimane un’ombra. In quella, un tac tac tac tac dall’angolo più lontano della stanza e lo vedo arrivare, rosso, spesso, veloce. Passa sotto il tavolo e sfreccia verso di me. Passa in quella zona dove il buio della stanza è fesso dalla luce, e l’impiantito diventa un alternarsi di rettangoli verde e oro. Alla luce il suo rosso è arancio; le zampe scattano meccaniche sui lati. Su per la schiena ho un solletico: un fruscio. Mi sposto di lato, il ragno che passa oltre e infila le scale, come se sapesse benissimo dove andare. Mi tolgo la maglietta, per controllare di non avere un ragno sulla schiena e resto lì mezzo spogliato, con qualche brivido ancora addosso.
2 – Ragni che cadono
Quando torno da scuola mangio da mia nonna. Appena arrivo accendo la televisione e se c’è un cartone animato mia nonna dice sempre ma cosa guardi queste stupidaggini. Un giorno porto su il videoregistratore dei miei e metto
I predatori dell’arca perduta. Lei non dice niente: si vede che per il cinema ha rispetto, anche se non l’ho mai vista davanti a un film.
Mia nonna è considerata una brava cuoca, anzi è lei stessa a dire di sé: sono una cuoca
bravissima. Io mi sono sempre immaginato che un cuoco bravissimo sia uno che sa cucinare una varietà di piatti ma lei fa sempre le solite cose. Le sue specialità sono i fegatini e il ragù, che tuttavia solo raramente mette sui maccheroni, ovvero quando suo fratello li fa e li manda e allora si mangiano i maccheroni del bis-zio, belli spessi e col ragù. Altrimenti il ragù va sulla polenta. Altre volte suo fratello fa le tagliatelle e le mangiamo in brodo. Nella pulizia del pollo per il brodo – poiché fare il brodo significa farlo con una gallina ruspante intera, e poi mangiare gallina lessa per giorni, arricchita dalla maionese che fa mio nonno (per tale maionese mio nonno è celebratissimo, benché non si tratti di fare altro che mescolare tuorli e limone in una tazza). Quando le tagliatelle fatte a mano finiscono, nel brodo che avanza la nonna mette la pastina. A Natale, in quel medesimo brodo ci vanno i tortellini, essi pure fatti a mano, ma da mia nonna.
È un giorno normale, sicché a pranzo stelline in brodo. Giro il brodo col cucchiaio. Nel brodo, un filamento nero. Lo giro ancora. Tra le gocce gialle di grasso, le zampe dritte, tutte su un lato, flosce come alghe, un ragno, affogato.
Nonna, che schifo! C’è un ragno nel brodo!
Macché, mi risponde la nonna dalla cucina, senza neanche voltarsi – sta sbuzzando un pollo sul lato dell’acquaio, con le dita affilate cava fuori reni e interiora e uova premature. Qualunque cosa contravvenga al disegno che mia nonna fa di sé e del mondo, non solo è per forza di cose falsa, ma esprimerla è come fare una critica a lei direttamente. E mia nonna non ama le critiche.
C’è un ragno nel brodo, nonna.
Sarà un gambo.
Ti dico che è un ragno.
Macché! Si volta. È rossa. È un gambo di prezzemolo, sibila, poi torna al suo pollo.
Allora io pesco il ragno col cucchiaio e vado da lei e glielo verso lì, in quella superficie ondulata che c’è sul lato dell’acquaio.
È un gambo, fa lei, e lo sposta appena con l’unghia.
Adesso si vede bene che è un ragno. È un ragno, le dico, e lei lo guarda, con un panno lo sposta nell’acquaio insieme alla sua pozza di minestra, apre l’acqua, il ragno fa un mezzo turbine e sparisce nel buco. Poi mi molla uno scapaccione.
È sicuramente caduto dal soffitto, mi dice.
✴
Nel periodo delle medie sogno moltissimo. Spesso sono incubi. Nel più terribile sono alla casa che prendevamo in affitto al mare, accendo la televisione e si vede la faccia di un vecchio a cartoni animati, forse il nonno di Sanpei, ma solo per un attimo perché la scena cambia e c’è una musica terribile e stanno torturando un burattino che però è anche un bambino, la testa di legno scuro, i lineamenti pitturati, qualcosa a mezzo tra un pupo siciliano, Pinocchio e un feticcio vudù, e lo torturano; con una macchina gli svitano la testa, gliela girano a forza di centottanta, trecentosessanta, settecentoventi gradi, e i lineamenti dipinti del burattino non hanno un’espressione di dolore, non possono averla, ma io so che sta soffrendo moltissimo ed è terrorizzato.
C’è una bambina di classe mia che mi piace. A volte vado da lei al pomeriggio. Ci raccontiamo i sogni (ma non questi più spaventosi, perché non mi piace ripensarci). Lei dice che sogna ragni, serpenti, lupi, tigri. Penso che sarebbe ganzo sognare delle tigri.
A volte rimango a dormire a casa sua. Hanno una cameretta che era di una sua zia. C’è una foto di questa donna su uno scaffale e c’è il suo letto, a una piazza, alto, molleggiato, un budino meccanico coperto da un drappo celeste. Sotto il drappo però le lenzuola che mette sua madre sono fresche, e dopo che ti sei infilato è bello sentire il peso del drappo su di te, l’importante è accertarsi di aver rivoltato bene le lenzuola, perché non vuoi ritrovarti a toccare quel velluto polveroso. A volte mi sono chiesto che fine abbia fatto questa zia, se qualcuno se la sia portata via. Se abbia adesso una sua famiglia.
Di solito stiamo in camera di Francesca, giochiamo a Brivido, a Dragon il gioco dei misteri cinesi, a scopa, briscola e rubamazzo. Lei mette la musica. Io di musica non ne so niente. Sulla tasca superiore dello zaino ho fatto la scritta IRON MAIDEN uguale sputata a quella che c’è nei poster che vendono in cartoleria, ma non ho mai sentito un loro disco. Possiedo la cassetta originale di “C’è da spostare una macchina” di Francesco Salvi, quella di “Sei come la mia moto” di Jovanotti e una di Madonna che comprò mia madre da un ambulante. Lei invece ha vari gruppi e cantanti preferiti, ogni volta uno nuovo. Oggi è: Bon Jovi. Mentre la musica va, lei mette la custodia della cassetta di Bon Jovi lì sul letto, come a dire, “guarda, la custodia della cassetta di Bon Jovi”. C’è sopra una foto di Bon Jovi, che è un ragazzone coi capelli lunghi e ricci, il torso nudo e un sorriso un po’ sognante e un po’ imbronciato. Che schifo, dico. Ma cosa ne vuoi capire, tu, fa lei, e mette via la custodia.
Un giorno Francesca mi prende per il polso e mi porta in una stanza dei suoi fondi. Mentre scendiamo mi dice che mi vuole far vedere una cosa e mi prende il batticuore e sudo e quasi non riesco a parlare, ma quando siamo giù mi fa solo vedere un ragno in un angolo. Dice che siccome i suoi la mandano sempre a prendere l’olio in cantina, ogni volta lo vede e finisce per sognare i ragni.
Torniamo su da lei e finiamo la partita e sua madre dice che è ora. Siccome non abbiamo fatto in tempo a cominciarne un’altra, andiamo a letto. Lei in camera sua e io in camera della zia, che mi piace anche perché sulla parete accanto al letto c’è una grossa tela che è il mio quadro preferito dalla prima volta che sono andato da lei e l’ho vista. Ci sono a sinistra Adamo ed Eva con in mezzo Gesù, a destra un inferno con diavoli dalla testa di uccello e di lepre che mangiano le persone o le portano in giro come trofei di caccia, gente che vomita, che caca rondini oppure monete, frecce che trafiggono colossali orecchie da cui spuntano coltelli, teschi di cavallo, slitte, carte da gioco, fiamme, padelle e giganteschi strumenti musicali usati come patiboli. E poi in mezzo, nel pannello più grande, una folla di gente nuda, e pesci, e frutta, in grandi caroselli; uccelli enormi e tende di corallo, tritoni e navi volanti e amanite muscarie di due metri, bacche grandi come palloni, cozze enormi da cui spuntano i piedi di chi ci si è nascosto dentro, uova da cui escono folle di giovani nudi, e all’orizzonte palazzi fatti di carne o di foglie o di rovi, essi pure ricolmi di gente che balla, si tocca, si accoppia, si abbuffa di frutti giganti.
Una notte sogno un “clac”. Sogno un ragno che cade dal quadro, da quella fitta folla di gente nuda e frutti e animali cade un ragno e le zampe sono gambe umane, glabre, passa sopra al mio braccio, cammina sulle lenzuola rivoltate verso la mia bocca. Mi sveglio. Il ragno, una bestiola tozza, le zampe brune, da ragno, è quasi sulla mia faccia. Lancio un grido che è un ruggito e con uno strattone sradico coperte e lenzuola e le getto in fondo alla stanza. Ne esce il ragno, fa per zampettare via. Gli rivolto sopra il mucchio di coperte e lo percuoto con una sedia. Arriva Francesca, in pigiama. Morbida, i capelli impastati sul viso, si strofina un occhio. Ha un profumo un poco appiccicoso, l’odore del suo sonno. Cosa c’è, mi fa. La spingo fuori e chiudo la porta imbarazzato. Sollevo le lenzuola e il ragno è spiaccicato, sull’azzurro del drappo le sue interiora fanno una macchia gialla. Strofino via la poltiglia con un fazzolettino, lo butto fuori dalla finestra. Torno a letto ma non mi riaddormento, entra già troppa luce da fuori. Vado da Francesca, che immagino pure non dorma, e provo a entrare, ma ha chiuso la sua porta a chiave.
3 – Le cantine e i ragni
L’esistenza della casa dove sono cresciuto mi è sempre stata spiegata con un “l’ha costruita il nonno” che mi è sempre sembrato poco plausibile. La costruzione di un simile edificio richiede competenze che vanno dal muratore all’elettricista al falegname, e mio nonno ha solo un banco da falegname, col quale peraltro la cosa più complessa che gli ho visto costruire sono i portafavi per le sue api.
È pur vero che l’edificio non pare improntato al funzionalismo ma costruito, lì su una delle traverse alte di via Po, in base a un certo qual principio di buon senso e gusto del periodo: in base a scelte approssimative che si preparavano a patire il passare degli anni fino a dimostrarsi per lo più sbagliate.
La più grave fra queste coglionate è il fatto che i due appartamenti della casa non si sviluppano, com’è logico, in altezza, ma sono collocati uno sul primo e uno sul secondo piano. Il risultato è che mia nonna, che nel frattempo ha perso l’uso di una gamba, è rimasta intrappolata lì sopra, e dal momento che non può tollerare l’idea di vivere in un posto diverso da casa propria, ci rimarrà di certo fino a che non morirà. Un’altra di queste scelte irrazionali è l’aver dotato l’edificio di un sistema di fondi che sarebbe più appropriato definire catacombe, tant’è che ben presto i miei amici, con i quali in una di quelle stanze mi riunisco per giocare a
D&D, li ribattezzano “il dungeon”. E con un dungeon i miei fondi hanno in comune, oltre alla pianta labirintica, oltre a curiosità architettoniche come buchi quadrati sui muri del corridoio e alte finestrelle che danno sull’esterno in punti del tutto casuali, oltre ai vicoli ciechi e alle stanze piene di armadi, bauli, botti, ziri, il fatto di essere piene di mostri. Non è raro infatti, per chi intraprende il percorso dalla stanza in cui giochiamo al bagno, incontrare scolopendre, scorpioni e soprattutto ragni. Il bagno in particolare è infestato, e i più pisciano a occhi chiusi, sebbene sia vero che un po’ ci crogioliamo in questa idea, e gli avvistamenti di questo o quell’avventuriero sono non di rado esagerati nelle dimensioni o nella quantità degli esseri incontrati. Quando però un giorno lo Staderini, chierico di 14° livello, torna e riferisce di aver visto un ratto, è chiaro che sta dicendo la verità: nessuno avrebbe osato inventarsi animali addirittura di diverso phylum.
Il giorno dopo, mio padre imposta un piano d’azione di ingegneristico razionalismo. Torna dalla mesticheria con tre tubi rossi, metallici, simili a quelli del dentifricio ma considerevolmente più grossi, industriali e cattivi. Sul barattolo un’onomatopea tipo “ZOCK!” scritta all’interno di una freccia che si abbatte su un ratto stilizzato, nero. Misura le soglie delle tre porte che costituiscono i principali snodi del dungeon e prepara tre cartoncini di quella stessa lunghezza, dotati di linguette attraverso le quali manipolarli, li spalma della colla contenuta nei tubetti e li colloca sulle soglie. Mi spiega che il ratto non potrà che passare sopra a quei cartoni e rimanerci appiccicato.
Tutto questo avviene prima di una vacanza di qualche giorno ed è grande, al ritorno, l’eccitazione di tornare e andare a vedere se la colla ha funzionato.
Io che scendo le scale, in avanscoperta, ancor prima che mio padre posi il cappotto nell’ingresso, e come arrivo mi blocco di fronte alla prima trappola. Sopra al cartone nessun ratto ma, a coprirne per intero la superficie, un mostruoso olocausto di ragni. Cinquanta, cento, uno sull’altro, ammassati, impiastricciati, ribaltati, i più ancora vivi, impegnati in una lotta di vani scatti con quella poltiglia fatta di colla e corpi dei loro simili. Sotto e in mezzo a quell’orgia di zampe e colla, a guardar meglio – perché, nonostante un conato che prende sostanza, mi avvicino, e guardo – un tappeto di altre creature: scolopendre, pesciolini d’argento, forbicicchie, cimici. E ragni: ragni grandi e piccoli, ragni filiformi, le zampe rese curve e molli dalla colla, ragni glabri e ragni pelosi, ragni gialli, neri, rossicci e uno rosa, osceno, come non ne avevo mai visti. Mio padre prende quell’orrore dalla linguetta e senza dire niente lo butta nella spazzatura.
✴
Viene poi l’alluvione. Al mio paese i fenomeni atmosferici fuori norma sono rari e vengono sempre ricordati. Qualcuno dice che così come si ricorda il gelo dell’85, così verrà ricordata questa alluvione. Qualcun altro si chiede, con una nota quasi di disappunto, come mai non sia stata sommersa anche Firenze.
Piove così tanto che non solo l’Arno, ma anche i borri, come quello che passa poco sotto casa mia, straboccano e la loro acqua gialla si porta via pezzi di steccato, alberi, cassonetti, le Ape Piaggio dei vecchini e pure qualche utilitaria. Casa mia è stata collocata dal buon senso di mio nonno su un’altura e quindi possiamo permetterci di stare lì in fondo, dove la nostra strada si unisce con via Po e guardare gli averi altrui passare per la via come se fosse effettivamente il Po. L’acqua tuttavia non smette di scendere e anche casa nostra si trova col giardino allagato. Da lì poi penetra nei fondi. Sento mia madre che mi chiama perché dia una mano con i secchi. Allora, dopo essermi goduto il passaggio di una 500 che oltre a procedere su quel fiume di limaccia verso il centro di Montevarchi effettua anche rotazioni sul proprio asse, mi smuovo e raggiungo il giardino.
C’è sempre un mistero più profondo, una verità che solo la natura può decidere di svelare. Nell’angolo tra il secondo e il terzo scalino del mio pianerottolo, al riparo dall’acqua e a poca distanza da un finestrino basso che dà sui fondi, un ragno formidabile. Ne ho visti di più formidabili, certo, ma in foto. L’anno prima mi è stato infatti regalato un libro che documenta ragni di ogni genere, con un occhio di riguardo per quelli velenosi come la placida e mortale vedova nera o il ragno eremita, scattante flagello texano in grado di necrotizzare i tessuti umani, oppure giganti come la tarantola e la migale. Lo sfoglio ogni volta con un brivido, guardando e non guardando quelle foto terribili; lo centellino, lo succhiello, immagino come possa essere venire morsi dal ragno eremita oppure scoprire sul muro di casa una migale. La risposta è davanti a me, poiché questo ragno, che è qui e adesso, ha in comune con le migali del libro le dimensioni. Ma è un ragno di qui: è marrone, ha le zampe affusolate. Non ha screziature, o le forme bombate, muscolose quasi, delle tarantole. È una tegenaria, un ragno di Montevarchi, ed è grosso come la mia mano. È qui e si protegge dall’acqua, questo sovrano dei fondi sfuggito facilmente alle trappole di mio padre e agli avvistamenti degli avventurieri della domenica sera, e non gli piace essere qui, quasi mostra una sua saggezza, una consapevolezza della possibilità di essere schiacciato dagli uomini – di essere schiacciato da me – e si difende con quello che ha: con l’orrore. In realtà sta lì ad asciugarsi, valuto: aspetta una botta di sole o almeno di caldo che lo rimetta in sesto, ma il pensiero non attecchisce. Colto da brividi, non oso superarlo; entro dal portone di mia nonna e raggiungo mia madre da sotto, attraverso il dungeon.
4 – Ragni immaginari
Al liceo mi viene facile ottenere risultati scolastici dignitosi col minimo impegno, il che mi lascia sconfinate teorie di pomeriggi da dedicare al mio pc e dunque a
Monkey Island I &
II,
Leisure Suit Larry I,
II,
III &
IV,
Ultima V,
VI &
VII,
Populous,
Civilization,
Syndicate,
Doom,
Sim City,
Sim Life,
Sim Ant.
Sono ormai indubitabilmente, e considero me stesso, una persona che patisce di aracnofobia. Tuttavia, essendosi fatte più rare le occasioni di passare una giornata fuori e avendo sviluppato un totale dominio della tecnica della pisciata a occhi chiusi per quanto riguarda le serate di gioco di ruolo, si sono fatte rare anche le occasioni di incontro con i ragni, almeno con quelli reali.
Nel mondo dei videogiochi i ragni non hanno una posizione prominente: visti aspetto e caratteristiche, non possono che essere relegati al ruolo di antagonisti e la loro frequenza è media, sebbene a volte possano essere memorabili.
Nella serie
Ultima, i ragni giganti compaiono come nemico solo nel quinto episodio, e sono di quelli che anche il giocatore meno abile è facilmente in grado di sgominare. Nelle campagne fuori da Trinsic ne schiaccio dozzine; il loro aspetto – in
Ultima V i mostri sono poco più che icone – non è del resto in grado di intimorirmi.
In
King of Dragons, la faccenda si fa più complessa.
King of Dragons non è un gioco che ho sul computer: non soddisfatto di passare davanti a uno schermo le mie cinque o sei ore al giorno, ogni pomeriggio prendo la bici e vado a un bar vicino casa, che ospita
Street Fighter II,
Vendetta e lo stesso
King of Dragons. Lì i ragni sono parte del mostro finale del settimo livello, una grande quercia dai cui rami calano, appesi ai loro fili, dei ragni tozzi e aggressivi, delle dimensioni di un barile. Il punto è evitarli quando piombano giù per afferrarti, e anzi picchiarli al volo in quel breve lasso di tempo. In ogni dato momento, fuori dall’albero non ci sono più di un paio di ragni, ma quando finalmente si sferra l’ultimo colpo, quelli muoiono tutti insieme e dalla chioma si scatena una pioggia di carogne: vengono giù con le zampette rattrappite e rimbalzano al suolo con un realismo che dà i brividi.
C’è poi
Doom, dove non ci sono ragni ma soldataglia mutante e demoni, almeno fino all’ultimo schema. Lì allora, dopo qualche secondo di silenzio, ci si trova di fronte un colossale ragno cyborg, dotato di due mitragliatrici tipo M-60. Non riesco mai a vincerlo, e anzi il suo aspetto, i suoni che emette, la difficoltà nell’ideare tattiche per combatterlo, la velocità con cui profitta di ogni mio momento di dubbio, mi cagionano una sensazione che solo molti anni dopo, fattane più reale e continuativa esperienza, avrei potuto identificare come stress.
Anche in
Sim Ant il ragno costituisce l’antagonista principale. A differenza di
Sim City, dove le opzioni di gioco erano numerose, e
Sim Life, dove erano così numerose da includere un menu dedicato agli eucarioti, tutto quello che c’è da fare in
Sim Ant è andare in giro per un giardino a raccogliere semi e briciole di pane – che deve fare, del resto, una formica? – stando attenti a evitare gli insetti predatori e soprattutto il gran nemico, un ragno errante che effettua implacabili ronde sull’erba.
Quando arriva
Baldur’s Gate ho perso un po’ di interesse nei videogiochi: il liceo è finito e godo di una maggiore libertà, che mi porta a rivolgere la mia attenzione ad altre questioni. Il motivo per cui non arrivo a finirlo non ha tuttavia a che fare con i postumi di una o più sbronze, o con la necessità di dimostrare la mia virilità a una qualche ragazzotta rinunciando per sempre ai videogiochi, bensì al fatto che uno schema secondario sia infestato di ragni giganti. La grafica dei pc ha ormai quasi raggiunto quella dei coin-op, e quelle orde di ragni grandi come pony, che sopraggiungono in equilibrio su lunghe zampe, che mordono i personaggi, che muoiono con rivoltante rattrappimento, sono per me qualcosa di insormontabile, a meno di giocare a occhi chiusi, cosa che tento un paio di volte solo per vedere un glorioso gruppo di avventurieri destinato a salvare i “Forgotten Realms” finire invece ghermito da un mucchio di aracnidi.
✴
In quegli anni scopro il cinema. In casa mia si noleggiano film da sempre, ma è a scuola, con un cineforum indetto dal professore di lettere di un’altra classe, che scatta davvero qualcosa. Lo sento che parla con la nostra prof durante l’intervallo, dice qualcosa sul “farli appasionare, mantenendo però un minimo standard di qualità”: fatto sta che il cineforum ha nel suo primo ciclo di programmazione
Blade Runner,
Excalibur e
Arancia Meccanica. Se tale idea non sarà sufficiente a farci andare alla seconda programmazione, che avrebbe virato improvvisamente su Rohmer e Kieslowski, serve almeno a farci uscire di scuola ogni giovedì alle 15 invece che alle 13, in preda a uno stato di esaltazione.
Ecco, al cinema i ragni non contano proprio niente. È come se si fosse stabilito di tenerli il più possibile fuori dal circo dei sogni. A volte fanno una comparsata, come quando si appiccicano alla schiena del compare di Indiana Jones. A volte la funzione è solo simbolica, come in
Spider di Cronenberg. La figura migliore la fanno forse in
Alien, ma il facehugger è solo una derivazione, un figlio spurio: quella coda ne fa qualcosa di morfologicamente diverso. Stesso destino per gli aracnoidi di
Starship Troopers e Shelob del
Signore degli Anelli, il cui pungiglione sull’addome ne esclude l’appartenenza all’ordine. Né esistono film con qualcuno intrappolato in casa col ragno velenoso, e sì che con i serpenti ne esistono una mezza dozzina. Anche nel cinema horror, dove avrebbero potuto fare la loro onesta figura, si manifestano solo sporadicamente. L’unico tentativo è quello di
Aracnofobia, pellicola mediocre che esce tra qualche attesa da parte degli adolescenti, e che evito accuratamente, rallegrandomi anzi che non esistano imperdibili capolavori la cui visione impone anche quella di cospicue inquadrature di aracnidi.
[fine prima parte – continua...]
lI racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus".