Rita è seduta in poltrona, nella sala del suo appartamento che guarda i tetti di una Milano che immagina ancora addormentata. Lei si è alzata presto, nonostante i brividi della febbre non le diano tregua da due giorni. Ieri ha provato ad ignorarli e ha raggiunto il suo ufficio, ma oggi proprio non ce la fa a prepararsi e ad uscire. Resterà a casa; d’altra parte il suo lavoro lo può tranquillamente svolgere tra quelle quattro mura domestiche che sono da anni il suo rifugio. Direttrice editoriale di una delle riviste più vendute del Paese, ma soprattutto modello per tutte le giovani donne che entrano nel mondo dell’editoria, Rita può dire di essere pienamente soddisfatta degli obiettivi professionali raggiunti. Figlia di operai, senza nessuna conoscenza alle spalle, ha lottato una vita intera per ottenere il successo, a partire da quando, a scuola, qualcuno ipotizzava che la ragazza non avesse gli strumenti culturali per studiare. In famiglia tutti parlavano dialetto e l’unico libro a disposizione era la Bibbia. Negli anni delle proteste operaie, i suoi genitori appartenevano ancora a quel folto gruppo di persone che si affidavano più alla religione che alla politica. E la religione invitava alla calma, in quei giorni di caos e di rivendicazioni.
Ma se i suoi parenti non avevano la forza o la volontà di lottare, Rita adolescente invece era decisa a combattere per un futuro migliore: migliorare il futuro perché anche giovani donne intelligenti come lei, che pur provenivano da contesti semplici, potessero farsi largo in una società stratificata e maschilista. Il primo passo fu quello di iscriversi al Liceo Scientifico, quando l’ambito scientifico era ancora fortemente appannaggio del mondo maschile. A scuola si era fatta onore. Studiava tanto; stava sui libri più di tutte le sue amiche, ma amava quelle materie e approfondire quegli argomenti le piaceva più che trascorrere le ore in compagnia delle sue coetanee che iniziavano a chiacchierare soprattutto d’amore. Non che i sentimenti non le piacessero. Leggeva romanzi che narravano storie travolgenti di amanti che si perdevano pur di non perdersi e sognava di incontrare un uomo che la travolgesse in un simile mondo. Le sue amiche, invece, accettavano di interagire con ragazzi normali e normalmente, una ad una, si fidanzarono. Lei rimase sola, benché qualche corteggiatore lo avesse.
Lo studio fu, negli anni della sua adolescenza, il grande amore. Inizialmente i suoi compagni di scuola la detestavano per quel suo essere sempre preparata ed interessata a tutto. Poi, qualcuno, iniziò a capire che non era un modo per mettersi in mostra. Rita era come malata di curiosità e tutto l’attirava. E come una malata deve essere aiutata a guarire, molti provarono a distoglierla da quegli interessi, “strani per altro in una femmina proveniente dal mondo operaio” pensava Lucio, di famiglia alto-borghese, talmente impegnato a salvarla che dopo l’università provò pure a sposarla. Rita e Lucio, ormai fidanzati, conclusero insieme il proprio percorso liceale: lei si diplomò con sessanta e la lode, lui con un discreto quarantotto. Di meno in casa di lui non sarebbe stato ammesso. La lode, in casa di lei, non fu compresa. Entrambi andarono all’università. Lui si trasferì a Milano e si iscrisse alla Bocconi per diventare manager, lei rimase a Genova a studiare lettere, perché in casa i soldi per mantenere la figlia a Milano per studiare da giornalista non c’erano. “E poi… che mestiere è quello del giornalista, per una donna… Non va bene…” aveva chiuso il discorso suo padre. E lei si era laureata in lettere moderne, con il massimo dei voti, e intanto aveva iniziato a collaborare con una testata importante, locale. Una redattrice si era resa conto delle capacità e del fiuto di quella ragazzina. Lo disse al suo direttore e non se la lasciarono scappare. Prima ancora di laurearsi, Rita aveva una scrivania tutta sua in redazione e guardava dall’alto i tetti di Genova.
Lucio si laureò e trovò immediatamente un’occupazione a Milano. Non valutò neppure per un istante di tornare a Genova, anche se voleva sposare Rita. Si sarebbe spostata lei. “Il suo lavoro valeva di più” pensavano tutti e pensò anche lui. Pure lei accettò questa strana idea. Lei che non aveva mai ritenuto di essere più di qualcuno. A Rita veniva talmente naturale essere la migliore, che non pensava ci fossero i peggiori. Per lei tutti erano uguali, con doti differenti. “Non era quello il motivo per cui avevano passato tanto tempo a protestare nelle piazze?” Eppure accettò che il lavoro di Lucio fosse superiore al suo. Con un po’ di malinconia e tanta fiducia nel futuro, Rita si trasferì a Milano. La fama di brava redattrice la seguì e qualcuno da Genova la segnalò al direttore di un importante quotidiano nazionale. Gli articoli parlarono per lei e fu assunta in pianta stabile, in un momento in cui il lavoro del giornalista diventava sempre più precario. “Ma lei ha i numeri.” Dissero in redazione e divenne la mascotte, donna, in un mondo ancora molto maschile.
La curiosità era sua complice nella vita. Non scriveva solo di cronaca, come i suoi colleghi. I suoi interessi spaziavano dalla moda alla letteratura, dalla politica alla psicologia: non c’era luminare a Milano che lei non avesse finito per conoscere ad un drink o ad una conferenza stampa. Oppure a casa sua, perché incuriosita da una notizia, aveva messo da parte la timidezza e si era presentata sotto casa per “Fare due chiacchiere…” diceva lei, senza usare mai il termine “intervista”. E, in effetti, chi chiacchierava con Rita aveva l’impressione di stare parlando con una buona conoscente, non con una giornalista arrivata lì per porre domande. Non che lei non se ne preparasse qualcuna, ma normalmente poi da quelle si allontanava per entrare nel merito di argomenti su cui lei aveva davvero delle curiosità. Ed erano questioni più profonde rispetto a quelle domande che si era preparata: nascevano dal fatto che si era avvicinata alle tematiche di cui parlava con il luminare di turno per interesse reale, e non per dovere professionale.
Ormai il nome di Rita era conosciuto in mille ambienti e la sua professionalità apprezzata ovunque. Eccetto che a casa. Lucio si era sposato per avere una moglie. Aveva già i suoi grattacapi con il lavoro e le assenze di Rita, sempre chiaramente giustificate da motivi professionali, lo infastidivano. Era lui l’uomo di casa, era suo il lavoro più importante. Rita poteva lavorare o non farlo, poco gli interessava. Quello che aveva le skills per mantenere la famiglia era lui. E anche a proposito di famiglia, aveva a che ridire. Da due anni erano sposati e da tre vivevano insieme a Milano, ma Rita ancora non si decideva a regalargli l’erede. “Ora non è il momento” gli rispondeva, quando in intimità lui le poneva la questione. E così, un giorno, Lucio entrò a casa annunciando a Rita che si sarebbe separato: aspettava un figlio dalla segretaria dello studio di consulenza per cui lavorava. Lei non se l’aspettava davvero. Aveva condiviso ogni istante della sua vita a Milano con il marito, lo aveva coinvolto nella sua esistenza e gli aveva fatto conoscere ogni persona che frequentava. Ora, però, si rendeva conto che invece lui non le aveva raccontato nulla di sé e del suo mondo. Non si erano scambiati gli amici, né gli interessi. Lui era rimasto indietro, rispetto a lei. E ora la distanza era diventata siderale. Talmente grande che lui non l’aveva vista più e aveva trovato un’altra, una donna vera che lo coccolava e gli faceva da madre e che era pronta a diventare madre dei suoi figli. In fondo a Lucio non importava nulla delle capacità della moglie: l’intelligenza di Rita, la disponibilità con gli altri, la curiosità e la voglia di cambiare il mondo non erano contemplati nel suo vocabolario di coppia.
E così se ne andò. Anni dopo, quando la rivide, e lei lo salutò affettuosamente, si domandò se davvero avesse fatto la scelta migliore: Rita aveva saputo girare pagina e andare avanti, senza portare rancore. Cosa che aveva fatto invece la sua seconda moglie, quando lui l’aveva lasciata perché il suo sentimento si era spento per mancanza di energia da parte di lei. Rita, dopo Lucio, aveva avuto altre storie. Attirava l’interesse degli uomini non per un’avvenenza, che era decisamente relativa e su cui lei, a differenza di molte, faceva poco affidamento. Gli uomini che di volta in volta incontrava sulla sua strada restavano affascinati dalla sua intelligenza. Un’intelligenza lucida, leale, che le stava aprendo la via del successo nel mondo dell’editoria. Dieci anni le erano bastati per diventare direttore editoriale della più importante rivista culturale del Paese. Dieci anni in cui aveva conosciuto le persone più in vista del mondo. Tra queste, aveva incontrato alcuni uomini che le avevano detto di amarla, ai quali lei aveva creduto. Aveva sognato l’amore travolgente, quello che solo un uomo eccezionale può offrire ad una donna fuori dall’ordinario; invece ogni relazione con personaggi così importanti si era conclusa in discussioni infinite. Ognuno di loro, che pur inizialmente avevano amato la sua indipendenza intellettuale, con l’andare del tempo aveva voluto cambiarla, adattarla al proprio ego. “Dietro un grande uomo, c’è una grande donna” spesso gli ripetevano, ma lei intuiva che qualcosa in quell’espressione non funzionava. Non era corretto, almeno nel suo caso. Dopo un paio di relazioni fallite, Rita capì il senso di quella frase. Era la parola “dietro” che non si adattava alla sua condizione. Lei non lo faceva a posta, ma non le riusciva proprio a stare “dietro”. Stava sempre al pari e per questo non piaceva a uomini anche quando erano brillanti e stimolanti.
Rita, però, non voleva restare da sola. Guardava le sue amiche d’infanzia e un po’ le invidiava. Da quando si erano trovate un compagno, quello era rimasto al loro fianco, avevano messo su famiglia, avevano figli, magari non navigavano in buone acque, ma insomma facevano una vita “giusta”. Lei, invece, più diventava importante, meno era amata! Pensò che il problema fosse la tipologia di uomini che stava frequentando: iniziò ad interessarsi a persone meno colte. Pensò alla palestra e al suo trainer, Guido. Non lo aveva mai considerato un possibile “compagno”, nonostante la sua avvenenza. Le pareva molto diverso da lei: parlare con lui, le sembrava un po’ come interagire con un extraterrestre. Però si convinse che, in fondo, qualche argomento forse avrebbe potuto scovarlo per attirare la sua attenzione ed indurlo ad invitarla ad uscire con lui. Gli disse che voleva scrivere un pezzo sul mondo delle palestre; gli propose di incontrarsi una sera, per prendere un aperitivo. Poi usò le sue armi migliori per sedurlo. Dopo anni in cui aveva frequentato il jet-set, sapeva come agisce una donna che vuole sedurre un uomo. Affilò le armi e riuscì nel suo scopo. Non aveva mai parlato di palestre e sport, ma prima di quell’appuntamento si documentò e qualche argomento lo ebbe perché la conversazione non finisse con il languire.
In pochi giorni, raggiunse l’obiettivo. Ora usciva con un uomo normale, con interessi normali e normali frequentazioni. Aveva un appartamento in periferia, uno stipendio non certo da manager, una famiglia d’origine orgogliosa della laurea conseguita in scienze motorie. Insomma una persona con cui parlare dell’ultima puntata di Porta a Porta e innervosirsi perché la squadra del cuore, che a questo punto lei dovette scegliere tra una delle ventidue che giocavano in Serie A, aveva perso per colpa di un arbitraggio iniquo. Rita si divertiva, ora. Poteva svestire i panni della manager ed essere una persona semplice. Però… c’era sempre un però, nelle sue relazioni. Guido soffriva di senso di inferiorità nei suoi confronti. Lei faceva di tutto perché lui superasse questo complesso: quando usciva con lui non vestiva capi d’abbigliamento firmati; aveva cambiato salone di bellezza, perché quello che frequentava prima era il luogo cult per le signore bene: ora si faceva pettinare nel negozio della sorella di Guido, che la serviva gratis perché le voleva bene. Cinema e teatro erano un ricordo, ma andavano spesso a vedere partite di calcio, di basket e anche qualche incontro di boxe, se arrivava qualche campione.
La mattina, la donna era la top manager che gestiva una delle più importanti redazioni, in Italia, ma alla sera si trasformava in un’altra persona. Un giorno le venne in mente, però, che anche questa volta l’uomo che le stava a fianco pretendeva di modellarla a suo uso e consumo. E tutto perché non accettava il suo lavoro, la sua intelligenza. Da un giorno all’altro, Rita cambiò palestra. Telefonò a Guido per incontrarlo. Gli chiese di raggiungerla in ufficio. Bellissima, in un tailleur blu, lo accolse nella sala riunioni. Gli offrì un caffè e gli chiese se lui fosse intenzionato ad amarla per quella che era: la donna che aveva di fronte in quel momento e non quella che si travestiva la sera per uscire con lui. Guido le disse semplicemente che no, non se la sentiva proprio. Rita non gli portò rancore, ma non si videro più. Ora, infreddolita e scossa dai brividi della febbre, guardava dall’alto i tetti di Milano e si domandava se in una di quelle abitazioni ci fosse qualcuno disposta a travolgerla in un sentimento appassionato, senza chiederle di essere diversa. Senza entrare in competizione con lei. Sorrise e sollevò il suo cagnolino sulle gambe. Non c’era risposta a quella domanda, ma restava la speranza di una donna che rifiutava di accettare la solitudine delle numero uno.
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus".