Oggi seguo un sentiero segnato di bianco, Musa. Incerto. Nostro figlio mi ha fatto chiamare dall’ospedale. Un altro po’ di vento a piegare questi vecchi alberi e la scogliera si solleverà in volo contro il mare. L’acqua mi scorre sopra le scarpe, mentre mi inerpico. Si increspa, il sentiero sembra un fiume che torni alla fonte. Dovresti vedere tuo figlio, Musa.
Ho sette vite, padre, sette volte sette. Sai che la mamma lo diceva. Sai, quando ha detto che voleva festeggiare il tuo compleanno sono rimasto interdetto. Non pensavo di cancellarti, certo, ci mancherebbe. Sei la mia stella fissa e non mi curo di chi dice che queste sono terre fredde, notturne, e che una nuova donna scalderebbe il letto, la casa, forse il cuore. Ma sono rimasto interdetto. Il fatto che mamma sia in un altro mondo non vuol dire che non possa per un giorno lasciare i suoi amici maghi, e gli elfi e venire a festeggiare da noi, vero?
Cosa dirgli, Musa. Mi sono coperto le spalle con la mia vecchia giacca, in questa luce amara di ottobre, e ho detto il sì che ti ho sempre detto. Il sì cui mi abbandonavo, lasciandolo custodito in te, come si fa lasciando una candela accesa su un altare. Musa, figlia della notte. Mi dicevano. Quella che non conosceva suo padre, sua madre, non conosceva nemmeno sé stessa. Dicevano. Perché Ti chiamassero Musa, visto che il tuo nome di battesimo era Caterina, restava un mistero. Musa era la ragazza incostante, quella con cui non conveniva perdere tempo, e io invece ci ho costruito tutto il mio. E poi sei andata via.
Ho sette vite, padre, sette volte sette. Ripete nostro figlio. Gli dà coraggio dire questa cosa. A scuola gli insegnanti mi dicono di lasciarlo stare, non nel senso di ignorarlo, tutt’altro, ma dicono che devo solo di dargli tempo. L’ho inteso cantare stamattina in camera, mentre si preparava per la scuola.
Sono un guerriero elfo, un forte guerriero del mio re. A lui solo obbedisco. E a Musa, la Fata. Ho sette vite elfo, sette volte sette. E a te che mi aspetti con latte e fragole, darò i miei sogni. Ho sette vite elfo, sette volte sette. Sono un guerriero forte, un guerriero del mio re. E tu mi darai la magia, e con la magia risveglierò il mio re. E io non avrò paura della tua bocca e tu non avrai paura della mia lama. E insieme potremo risvegliarlo. Sempre le stesse parole, sempre le stesse. Non mi dice chi gliele abbia insegnate.
Il lavoro va bene Musa, sono davvero contento. Ho un nuovo laboratorio, qui in cima a questa scogliera ventosa. L’aria mossa non pone tuttavia alcun ostacolo al suono. Le mie statue crescono. A volte mi chiedo se sia io, o questo posto che le alimenta. Il legno cresce e si gonfia d’anima sotto le mie mani. Si muove di lato e lungo le mie vecchie sgorbie, forgiate da mio nonno. La materia che lavoro sembra avere coscienza di sé. E di me. Perdona i miei errori e si accresce in bellezza. Da qui sento la bava sonora delle campane del paese. E ci sono volte in cui anche gli alberi secolari si piegano curiosi alle mie finestre.
Tuo figlio dice che ci pensi tu, che sono gli elfi o tu stessa a trasformare in bellezza i miei pezzi. Tuo padre invece diceva che ogni utensile di scultura ha una sua funzione, un impiego e, conseguentemente, una forma diversa. Proprio come le persone. Veniva volentieri qui. Mi scopro a sussurrare dentro la mia mente, che tuo figlio non vorrebbe che parlassi di suo nonno al passato. Si, è sempre tutto uguale. Lui riposa nel suo stato catatonico, nella penombra di una stanza di ospedale dove è affidato al silenzio, a mani sapienti. Una volta si sarebbe romanticamente detto: è morto di crepacuore. Oggi si dice sindrome da cuore infranto, cardiomiopatia da stress, e si apre un limbo di non morte. I medici mi hanno spiegato che il ventricolo sinistro del suo cuore una sera assunse la forma di un cestello usato dai pescatori giapponesi per la pesca del polpo. Si modellò nel dolore per la tua morte, come un pezzo di legno grezzo da scolpire.
Potrei commentare che ai medici di oggi certo non difetta l’immaginazione. Ma il vero pescatore è tuo figlio, tutto proteso a cercare la sua anima. Non passa giorno che non gli prenda la mano. E canti. E racconti. Fa i compiti in ospedale, mentre io sono nella mia casa sulla scogliera. I medici fanno un po’ come io mi comporto con i miei pezzi di legno, che lavoro e risveglio dalla loro durezza. Scolpendo, tornendo, bagnando, raschiando, lisciando. Ma non hanno la mia stessa convinzione. Chi è vecchio è associato simbioticamente alla morte e sembra superbia o inutile puntiglio pensare che possa tornare sui suoi passi, invertendo la freccia del tempo. Non lo diranno mai, ma so bene che lo pensano.
Vedrai che farà come loro, il nonno, dice tuo figlio. Come i tuoi scacchi. Un giorno tornerai in ospedale come fai nella tua casa sulla scogliera (si, così lui chiama il mio laboratorio) e ci troverai il nonno, in piedi come un re degli scacchi. Il re era la pedina che gli piaceva di più. Il re, il pezzo senza compromessi, quello che non si può eliminare, ma solo obbligare alla resa. Conchobar ed i suoi dodici eroi. Il re dell’Ulster, il nonno di Cú Chulainn. Ricordi? Conosce già bene il gioco degli scacchi, il nostro piccolo uomo. Eppure il nonno aveva fatto in tempo ad insegnarli solo i primi rudimentali movimenti, i primi schieramenti dove si impiegano i soli pedoni. Non me lo so proprio spiegare.
La tua scacchiera di olivo e ciliegio, Musa, fatta con legni e in Paesi lontani dal nostro. La tua unica follia, sbarcata da una nave, voluta a tutti i costi. A volte mi verrebbe da prenderla a mazzate, tanto è liscia e perfetta. Esprime un’armonia che non si associa al mio dolore. Esprime una perfezione che, volutamente, le mie scacchiere e i miei pezzi non hanno. Mi manchi. Perché mai hai voluto una scacchiera fatta lontano, forse in riva al Mediterraneo, in Italia, non so da chi. Io ne fabbrico e ne vendo in tutto il mondo. Perché non hai voluto i pezzi. Una scacchiera muta. Per che fare. Lui dice che il nonno tutte le notti lo sogna li davanti. Seduto. Che gli insegna la teoria delle difese e degli attacchi e che muove i pezzi con grande velocità. Senza rumore. Che le sue mani sono grandi e lui gli ricorda che è solo un bambino, che deve avere pazienza. Comunque se la cava bene, vince e fa impazzire i suoi insegnanti, quando provano a sfidarlo.
Quando sei entrata in coma nostro figlio ha detto che non saresti tornata. Che eri destinata ad un altro mondo e saresti tornata come fata. C’era dell’ironia, fosse stato il momento: Musa la Fata. Rimasero tutti impressionati da quel piccolo essere, così forte. Io lo sapevo che aveva ragione. L’entrata nell’assurdo, nella terra senza speranza, quella dove si affonda, era avvenuta molto prima, quando si era passati dalle parole come terapia, operazione, trattamento a quelle sempre meno comprensibili e composte come sperimentazione, infusione, carboplatino. Erano per me tanto improbabili quanto il loro esito fausto. Più erano improbabili le parole, più sorridevi. Più perdevo le mie radici aggrappate alla realtà, più mi confortavi. Più le parole mi sconvolgevano e più mi suonavano come sinonimi di una sola: fine, morte. Tu mi prendevi in giro chiedendomele come chiavi di un immaginario cruciverba. Per lui no, la tua sofferenza era come trascesa in una visione: eri un bozzolo di Fata. E ne ridevi. Sarà bello veder nascere una fata dicevi.
A tuo figlio devono piacere gli scacchi perché gli piacciono i numeri. Del resto questo Paese è sempre stato legato ai numeri. A me piace la storia, e gliel’ho spiegato con parole semplici, tratte dalle sue leggende. Infatti ai tempi di Conchobar mac Nessa almeno tre delle quattro province dell’Irlanda erano tripartite. Le tre Province dell’Ulster e le tre del Connacht. Le nostre dodici razze libere, sei nella metà di Conn, sei in quella di Mug. Ci sono altre leggende che parlano di un Paese diviso “due volte in 6 parti”. E poi il numero sette. Una vera ossessione per il numero sette. L’erculeo Fergus, che abitava la casa del re, dal corpo forte e tremendo di cui tutte le misure vengono date in ragione del numero sette. Sette profeti predissero l’avvento del re, sette anni prima della sua nascita. Ottenne il regno alla fine del suo settimo anno. A forza di leggergli vecchie storie, perché fatica ad addormentarsi e lo vuole fare dal tuo lato del letto (solo dopo lo posso portare nella sua camera) ho approfondito queste conoscenze e mi sono appassionato. Ed eccomi allora a spendere gli ultimi mesi a intagliare scacchiere e pedine per gli scacchi celtici, il Brandub. E a trasformarmi da artigiano bravo ma conosciuto da pochi, lontano da qui, a celebrità locale. Mio malgrado. Non ci crederai, adesso ho anche degli aiutanti e degli apprendisti. Io che ti dicevo che non avrei mai assunto nessuno perché era incompatibile con il mio carattere solitario. Scacchiere, tanto per cambiare, ma di sette per sette. E qui, a differenza degli scacchi, il re è mortale. L’obiettivo del gioco è creare un corridoio sicuro per il re e condurlo al bordo della scacchiera, mentre l'avversario tenta di catturarlo. Ma la cosa strana è che il centro della scacchiera dovrebbe rappresentare questo Mondo, i bordi l’altro, sconosciuto ai più. E mio figlio che mi accompagna in giro, a cercare legno, a trovare ispirazione in musei, monumenti e biblioteche in tutto il Paese. Dice che ci sei sempre anche Tu. Se passiamo la notte fuori, lascia sempre un messaggio per te. Dice alla reception che è un messaggio per la Fata Musa. Chi riceve naturalmente non capisce, ma esegue sorridendo complice. E forse è meglio così.
Il lavoro procede bene. Una volta nostro figlio mi ha detto che sulla scacchiera oltre ai re ci dovevano essere le fate e gli elfi. La leggenda lasciava abbastanza incertezze sulle regole del gioco e sui pezzi che ho creduto di poterlo accontentare. I pezzi sono splendidi le scacchiere anche di più. Qualche volta ritardo le consegne, sempre più pressanti, perché lui vuole giocarci. Ho creduto di vedere al mattino i pezzi messi in posizioni diverse da quelle in cui li avevamo lasciati la sera prima, ma certo è un’illusione. Chiederlo a tuo figlio è inutile, Musa. Lui dice che glielo hanno ben spiegato gli elfi. Quel tipo di pezzi a volte si muove da sé. E che a volte lui non può giocarci perché sono gli elfi che devono farlo. E poi qualche volta succede che il nonno si stanca dei soliti sedici pezzi e allora vanno li, ad inventarsi un gioco. Sempre in sogno. E come bambini che scoprono per la prima volta una scacchiera,
giocano, nel vero senso del termine, attribuendo ognuno le proprie regole ed un valore magico al proprio pezzo.
Mi dice che discutono quasi sempre su chi ha vinto, e che il nonno è proprio cocciuto. Tuo figlio mi ha così abituato a vivere dentro una leggenda che ormai non ci faccio più caso. Del resto a ben vedere i nostri miti e la letteratura sono pieni di storie di scacchiere magiche. Dicono che servivano agli uomini per parlare con gli dei, che i pezzi erano d’oro e spesso semoventi, e che la scacchiera era d’argento. Per gli uomini di allora il mio legno sarebbe certo sembrato troppo banale, poco sublime. Insomma forse ha ragione tuo figlio Musa, e la scacchiera mette in comunicazione questa casa con l’aldilà.
Soffro Musa, parlo e non lo do a vedere, ma soffro eccome. Mi manchi.
Lui era malato, così un giorno ho spolverato la scacchiera e schierato le pedine. Ti ho aspettato, per vedere se lui aveva ragione. Se la mia scacchiera funziona come una antenna per captare la voce di Dio, basterà sicuramente per parlare con una Fata, mi son detto. Quanto vorrei percepire una tua mossa, Musa. Io nella nostra vita da semplice pedone mi sono dovuto improvvisare Alfiere. E malamente, con ogni probabilità. Tu invece eri già la Regina, la signora del gioco. E mi spingevi, ci spingevi tutti in avanti. Del resto sei stata tu a sollevarmi un giorno in cielo da una strada, dove mi trovavo, stretto con rabbia in un angolo immaginario, ma vivo e reale per me. E salire in cielo è certo un movimento magico che nessun pedone avrebbe mai potuto compiere da sé, senza una Regina al proprio fianco. Ti ho aspettato, assetato di tue mosse, io avevo fatto la mia, in fuga dal reale. E sai quanto questo mi costi. Non ho resistito, bruciato dall’attesa ho aperto la porta lasciandola squadernata alle mie spalle. Fuori c’erano i vecchi alberi, muti e gonfi di pioggia come lustrate gemme notturne. Si sarebbe detto anche loro schierati verso il mare come gigantesche pedine. Sono tornato a casa. Ho pianto a tempo, come sempre. È una disperazione profonda ma ordinata la mia, scandita dal metronomo di casa che è diventato tuo figlio, le cui richieste soddisfo puntualmente, accompagnandomi con un sorriso. Che non gli debba mai mancare. Solo quando non mi vede, piango. Ma lui ha i tuoi occhi e sento che ogni giorno mi scava sempre più in profondità, come un terreno cui si è ormai usi. Che non ha più segreti, nemmeno nei suoi recessi.
Oggi seguo un sentiero segnato di bianco, Musa. Incerto. Nostro figlio mi ha fatto chiamare dall’ospedale. E mi ha detto di portarti con me. Sono finalmente arrivato. Pesante di ogni pensiero e carico di pioggia, entrata in ogni piega della giacca. Una infermiera che non parla, sfiora la mia mano e mi sospinge verso le scale e poi verso un corridoio in penombra. Non so cosa aspettarmi, ma sono preparato al peggio. Lo vedo, tuo figlio, ombra piccola intrecciata alle grandi. Dice che sono andati via ora. Chi? Lo sai. Lo so. Gli elfi probabilmente. Non domando oltre ed entro nella stanza di tuo padre.
Il nostro piccolo figlio gli è accanto. Lui sorride e lo accarezza. Grande come un re risorto.
Vedi, mi dice.
Ha sette vite, sette volte sette.
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"