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Richard Adams e il suo inno alla resilienza

Alla veneranda età di 96 anni ci ha lasciati Richard Adams. Si è congedato la vigilia di Natale, quando chissà quante persone deponevano sotto l’albero l’ennesima copia del suo libro più celebre, “La collina dei conigli”, cinquanta milioni di copie vendute in tutto il mondo. Trascrizione di una storia nata per gioco, che Adams aveva raccontato alle figlie Juliet e Rosamond durante un lungo viaggio in auto. Vi si narra la vicenda di un coniglio chiamato Quintilio – Fiver nella versione originale – che ha una brutta preveggenza: la distruzione della tana in cui abita con altri simili. Il gruppetto decide, quindi, di partire alla ricerca di una dimora più sicura, arrivando nella tranquilla collina di Watership. Tranquilla mica tanto, dal punto di vista dei conigli migranti, che devono affrontare diverse peripezie e vedersela con una conigliera rivale. È un efficace apologo sulla tenacia e la libertà. “Un glorioso inno alla resilienza umana (o dei conigli)”, ebbe a scrivere Selma Lanes sulla New York Times Book Review. Qualcuno non mancò di cogliere nel racconto una impronta a tratti epica che rimandava direttamente all’Odissea e all’Eneide. Adams ha sempre badato a smontare interpretazioni allegoriche, qualsiasi esse fossero: “è soltanto una storia di fantasia che raccontai alle mie bambine”. Una bella storia, comunque.
 
LA PARTENZA
 
Ora, signore, il giovin Fortebraccio,
cui non difetta temerario ardore,
qua e là per le contrade di Norvegia
ha radunato un branco di banditi
pronti a tutto, per una qualche impresa a gravi e oscuri fini.
 
Shakespeare, Amleto
 
Fu-Inlé significa: “dopo il levar della luna”. I conigli, s’intende, non hanno un’idea precisa del tempo, della puntualità. A tal riguardo essi somiglian molto ai primitivi, cui spesso necessitano parecchi giorni per radunarsi, a qualche scopo, e poi diversi altri prima di mettersi in moto. Fra costoro, prima che riescano ad agire insieme, occorre che si stabilisca una specie di flusso telepatico, fin al punto in cui tutti si rendano conto d’esser pronti a partire. Chiunque abbia osservato, ai primi freddi d’autunno, le rondini e i rondoni radunarsi sui fili del telefono, cinguettare, compier voletti, soli o a piccole squadriglie, verso i campi coperti di stoppie, poi tornare e formare delle file, via via più lunghe, sopra i viali che vanno ingiallendo – centinaia di singoli uccelli che si vanno congregando e amalgamando, con gioia crescente, in grandi frotte, e le varie frotte quindi, disordinatamente, s’uniscono a creare un unico, enorme e inquieto stormo, folto al centro e sbrindellato agli orli, che di continuo si rompe e riforma come le onde o le nuvole – fino al momento in cui la maggior parte (ma non tutti) capiscono che il momento è giunto: ecco che partono, ecco che è cominciata un’altra volta la grande migrazione verso sud, cui molti non sopravviveranno; chiunque abbia visto questo, ha visto all’opera quel flusso che scorre fra creature le quali si ritengono, in primo luogo, parti d’un gruppo (e solo in via secondaria, se pur affatto, singoli individui) e che da tale flusso vengon fuse insieme, ricevendone l’impulso ad agire, senza cosciente volontà o pensiero: ha visto all’opera l’angelo che spinse la Prima Crociata verso Antiochia e che spinge i lemming in mare aperto.
Veramente, la luna era sorta da oltre un’ora, e mancava ancora molto a mezzanotte, quando Moscardo e Quintilio sbucaron fuori dalla loro tana, dietro i rovai, e in silenzio scivolarono sul fondo del fossato. Con loro c’era un terzo coniglio, amico di Quintilio, a nome Hlao, Nicchio. (Hlao sta a indicare una qualsiasi minuscola concavità dove l’acqua o la rugiada si raccolgono, per esempio l’increspatura d’una foglia, la fossetta d’un dente-di-leone.) Nicchio era molto piccolo, e pauroso, sicché gli amici avevan avuto il loro daffare a persuaderlo. Alla fine aveva aderito, dopo molte esitazioni. Era tuttora pieno di dubbi, per le incognite d’oltre-conigliera, però aveva deciso di star sempre vicino a Moscardo, e fare quello che diceva lui: era il modo migliore per evitare guai.
I tre erano ancora in fondo al fosso, quando Moscardo udì muoversi qualcosa sulla proda. Guardò rapido su.
«Chi va là? Sei tu, Dente di Leone?»
«No, sono Smerlotto» rispose quello, sporgendosi dal ciglio. Saltò giù, atterrò pesantemente in mezzo a loro. «Ti ricordi di me, Moscardo? Stavamo di tana insieme, l’inverno scorso, al tempo della neve.»
Moscardo si ricordava di Smerlotto: un coniglio piuttosto tardo e stupido, e quei cinque o sei giorni trascorsi insieme a lui, sotto la neve, eran stati una noia da non dire. Però, si disse, non c’era tanto da far gli schizzinosi, a questo punto. Parruccone poteva anche riuscire ad aggregare un paio di auslani ma, per lo più, i loro compagni sarebbero stati conigli di scarto, periferici o reietti che non avevan nulla da rimpiangere. Così stava ragionando, quando comparve Dente di Leone.
«Prima partiamo e meglio è, mi sa» questi disse. «Non mi piace troppo, l’aria che tira. Dopo aver reclutato Smerlotto, m’accingevo a persuadere qualcun altro, quando mi sono accorto che Barbasso mi stava alle calcagna. “Vorrei sapere cosa stai combinando” mi fa. Gli ho risposto che stavo chiedendo se c’erano conigli che volevano lasciare la colonia, ma non credo che lui m’abbia creduto. Fatto sta che s’è fatto sospettoso e m’ha chiesto se non stessi, per caso, complottando qualcosa contro il Trearà. Insomma, s’è arrabbiato e, se devo dirti la verità, ho preferito piantar tutto e venir qui, con il solo Smerlotto, e chi s’è visto s’è visto.»
«Non ti biasimo» disse Moscardo. «Conoscendo Barbasso, anzi, mi stupisco che non t’abbia prima menato e poi interrogato. A ogni modo, aspettiamo un altro poco. Mirtillo sarà qui fra breve.»
Trascorse del tempo. In silenzio, rannicchiati in se stessi, guardavano le ombre che la luna stampava sull’erba allungarsi verso nord. Alla fine, quando Moscardo stava per andarlo a chiamare, ecco Mirtillo che sbuca dalla sua tana, seguito da non meno di tre conigli. Uno di questi era Ramolaccio. Moscardo, che lo conosceva bene, se ne rallegrò: era duro e gagliardo, uno che certo sarebbe entrato nell’Ausla, non appena raggiunto il pieno peso.
Forse però è impaziente, pensò Moscardo, o sennò avrà avuto la peggio, in una zuffa, per qualche femmina, e non s’è rassegnato. Bene, fra lui e Parruccone, non ci troveremo troppo a mal partito, se ci sarà da combattere.
Gli altri due non li conosceva e i loro nomi, quando Mirtillo glieli disse – Lampo e Ghianda – non l’illuminarono. Ma non c’era da stupirsi, ché eran due derelitti: sei mesi, l’aria patita, timida e guardinga di chi è abituato a soprusi e vita grama. Guardavano Quintilio con curiosità. Da quel che aveva detto loro Mirtillo, si sarebbero quasi aspettati, da lui, poetici furori e vaticini di sventura. Invece, appariva più calmo degli altri, più normale. La certezza di partire gli aveva infuso tranquillità. […]  
[da R. Adams, La collina dei conigli, traduzione di Pier Francesco Paolini, Rizzoli, 1975]  

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