Paolo Teobaldi, un racconto ad uso di memoria

Luigi Oliveto

11/04/2019

Nell’ultimo libro di Paolo Teobaldi, “Arenaria”, ragione della scrittura non è la nostalgia per un mondo scomparso, ma, prima che sia tardi, l’esigenza tenera e urgente di lasciare una memoria. E questo fa il nonno del romanzo (che poi è lo stesso Teobaldi) a beneficio della nipotina appena nata e che un giorno ‘deve’ sapere. Le racconta, dunque, il mondo “in via di estinzione” che è Monte San Bartolo, vicino Pesaro, poco più che un promontorio di pietra arenaria (200 metri sul livello del mare) sempre più mangiato dalla risacca dell’Adriatico. Un piccolo universo di natura e umanità, eroso dal mare e dalle trasformazioni sociali, dalle ingiustizie e da certe inesorabilità (o ritenute tali) della Storia. Per poter narrare questo angolo di terra (il suo paesaggio, i personaggi, le vicende, la rabbia, il dolore, le bizzarrie) l’autore non può prescindere dalle parole spigolose ed evocanti (anch’esse in via d’estinzione) che in quel luogo si usa(va)no. Perché difficilmente, un siffatto micro-universo, potrebbe essere raccontato in altra lingua, al punto che nelle pagine di Teobaldi è la stessa lingua a farsi paesaggio, personaggio, introspezione. Dice in proposito Stefano Bartezzaghi: “Teobaldi non scrive parole: le adotta, le alleva e le accudisce così quando viene il momento di impiegarne una risponderà docilmente alla chiamata dello scrittore”. “Arenaria” è pertanto un intenso racconto memoriale, dove un nonno – il pòr nònn – teme la dimenticanza e, quindi, racconta, dice, rammenta. Così da lasciare alla nipote una ricchezza di storie e sentimenti. Un lascito destinato a una creaturina di cui non si sa – al momento che avrà l’uso della parola – “che lingua, quali lingue, quante lingue” parlerà.
 
***
 
Te non ti puoi ricordare, non eri ancora nata, e poi ancora non parli, sei nata da poco, e poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai…
… anche se i dottori adesso dicono che dentro la pancia della madre uno sente e capisce già tutto: i suoni della città, la musica del conservatorio, l’acciottolio dei piatti sul lavello, lo sciacquone del cesso, il nautofono, la sirena della Croce Rossa o dei pompieri, difficili da distinguere anche per un nativo, il padre e la madre che fanno questioni, o anche solo si beccano per gioco per poi fare la pace a letto: anche se sarebbe sempre meglio evitare di fare questioni davanti ai figli: belpunto…
Ma adesso come faccio a spiegare a una bambina di pochi mesi, di pochi anni, cosa vuol dire belpunto?
Belpunto… belpunto… belpunto: forse solo con un racconto.
Così mi ricordo che da ragazzi c’era uno della nostra compagnia, Coso, porétto, che adesso è morto, uno dei tanti Cosi di quegli anni, che voleva invitare una straniera a ballare con lui al Notturno Dancing Capriccio, come ripeteva gracchiando l’altoparlante della Giardinetta che passava e ripassava per i viali del mare:
“Questa sera… al Notturno Dancing Capriccio… This evening… serata di gala… gran suaré… ricchi premi e cotillons per le signore…”, che fascino (e che pena) quel mezzo inglese e quel mezzo francese con la pronuncia nostrana.
Era il 14 agosto e Coso cercava disperatamente di agganciare la straniera, che era guarnita, piena di semola sulla faccia e sulle braccia ma formosa, e allora, paonazzo per lo sforzo, facendo ricorso a tutto il suo inglese imparato alle medie, le aveva detto che lei doveva venire a ballare con lui al Capriccio quella sera perché l’indomani era ferragosto (quindi la stagione dei bagni stava per finire: quindi dopo pochi giorni lei sarebbe partita per tornare in Scozia o in Cornovaglia: e quindi loro due non si sarebbero rivisti mai più senza che lei gliel’avesse data).
Insomma: lei non poteva dirgli di no perché…
…e la compressa argomentazione di Coso, carica di significati sottintesi, proferita davanti a numerosi testimoni audio-oculari suonò distintamente così:
because tomorrow… beautiful point… is iron-august, cioè (nella sua testa): perché domani… belpunto… è ferragosto.
Belpunto, capisci? Belpunto: un modo di dire che non troverai nei dizionari d’italiano: ma che, se fai attenzione, puoi trovare sott’acqua insieme a tante altre parole sommerse.
Belpunto, per intenderci, io mi ricordo perfettamente anche di cose che non ho mai visto di persona, però le ho sentite raccontare: e magari la stessa cosa è successa a mio padre, il tuo bisnonno-falegname, e magari anche al tuo trisnonno-tipografo: e così, a fare i conti, viene fuori che sono storie che risalgono ai tempi della Prima guerra mondiale, la Grande guerra, quasi che la Seconda fosse stata da meno, o prima ancora, quando i piemontesi di Cialdini entrarono in città il giorno 11 settembre 1860, liberandola dalla “tirannide pretesca” oppure, se preferisci, come recita un’altra lapide, dalla “mala teocrazia papalina”.
Che poi, se vuoi averne un’idea più precisa di quei tempi andati, basta prendere una tavola di Francesco Mingucci, cartografo e giardiniere di corte, quelle belle stampe colorate di quando tutte le terre di questa zona, dal mare alle creste dell’Appennino, non erano ancora dei conti Labardati ma degli Sforza di Pesaro (ramo minore degli Sforza di Milano) o dei Della Rovere, dei Malatesta o dei Guidubaldi, che comandavano anche con la sonora bellezza dei loro nomi.
Se invece osservi le mappe dell’Istituto Geografico Militare le cose cambiano perfino sulla stessa tavoletta (scala 1:25.000) perché un conto è un rilievo effettuato nel 1947, per dire, e un altro nel 1861; o anche prima, un cabreo acquarellato di quando qui da noi comandava il Papa, quando la città primigenia, la città per antonomasia, è ancora tutta racchiusa dalle mura pentagonali dei Della Rovere: fuori dalle quali, ma anche dentro, trovi campi, incolti, gerbidi, cannicce, rimorte, orti, pozzi, guazzi, mazzacavalli a stufo. Niente zona-mare a quei tempi, niente città-giardino, niente street food, ruota o torre panoramica, autostrada caselli tangenziale centri commerciali eccetera, bensì toponimi in sequenza, ugualmente poetici e ritmati però, se ben disposti:
 
Battaglia, Mulattieri, Pescheria,
Neviera, Zoccolette, Montatina,
Celletta, Belvedere, Discolato,
Bragiola, Miralfiore, Contramine,
Pantano, Tra-i-due-porti, Siligata,
Condotti, Sinagoga, La Foglietta,
Macelli, Porta Sale, Seminario,
Parchetto, Piazza d’Armi, Portanile,
Piazzetta, Sant’Ubaldo, Zecca Vecchia…
 
… nomi eloquenti, anche inquietanti a volte: sempre più belli dei cognomi di quei letterati giureconsulti cortigiani, che a distanza di secoli puzzano ancora di freschino e di piscia di gatto.
E comunque le accuratissime mappe digitali di oggi, per quanto ottenute con le rilevazioni più moderne, con l’aiuto dei satelliti, dei droni e del GPS, non rendono l’idea di com’erano realmente le Rive del San Bartolo prima dell’ultima guerra, né del quartiere nato e cresciuto lì sotto, che adesso si chiama Sottoripa, perché deriva da Sub ripas. La linea di costa quella volta era molto più avanzata, il mare cioè non arrivava a lambire e sgrottare il colle come oggi: o meglio lo lambiva e lo sgrottava centinaia di metri più in là: insomma, dove oggi vedi il mare lì era tutta terra, ma terra buona, campi coltivati, filoni di grano, vigne maritate coi mori, e poi piante d’olivo e alberi da frutto a stufo: meli, peri, persici, fichi, ciliegi, albicocchi: una terra benedetta che una volta, favoleggiava mio padre, ma io ci credevo (e poi ci credo ancora), prima-prima, prima di appartenere ai conti Labardati, come tutto del resto da qui all’Appennino, il San Bartolo era propriamente, né più né meno, il Paradiso terrestre, quello della Genesi, dove Adamo ed Eva, tenendosi per mano, trotterellavano nudi-brilli, ma senza alcuna malizia, tra le ginestre in fiore, ciascuno col rispettivo umanissimo ballonzolio.
Ma poi più che con le parole, che adesso poi non so neanche quali parole usare, di quale lingua, di quale dialetto, di quale linguaggio settoriale, l’unico modo per farti capire certe cose sarebbe quello di fartele vedere, cioè di fare come faceva mio padre, che mi caricava sulla canna della sua bicicletta (una Wolsit usata coi freni a bacchetta, già appartenuta ai vigili urbani) e mi portava a marina a fare il bagno nella spiaggia dei porétti, a ridosso delle colonie: una piantagione di tende inclinate, che nell’arco della giornata ruotavano come tanti girasoli.
Il mio sogno sarebbe poter fare con te la stessa cosa: caricarti di traverso sulla canna (foderata prima con l’asciugamano del mare), seduta scomodamente all’amazzone: o meglio ancora farti accomodare su quei seggiolini in plastica di oggi, molto più sicuri, coi due schinieri posteriori che impediscono ai piedini del bambino di finire tra i raggi, e portarti a vedere il sole che sorge o è appena sorto dal mare, e la lunghissima prospettiva della secca, con tutte le sue dune parallele e la stesa di alghe smeraldine che il bagnino sta rastrellando con movimenti lenti, ammonticchiandole in tanti covoncini da portare poi via con la carretta.
 
[da Arenaria di Paolo Teobaldi, E/O, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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