1. La battaglia della Meloria
Il 6 agosto, festa del papa Sisto II (257-258), martire sotto l’imperatore Valeriano, era legato ai molteplici successi navali ottenuti dai Pisani in quel giorno (la guerra si combatteva in estate): il santo fu così eletto a speciale protettore celeste delle fortune pisane sul mare. Ma in quella data, nel 1284, avvenne anche la sfortunata battaglia della Meloria, preceduta da un biennio di scaramucce di varia entità e di diverso esito. Della battaglia vera e propria trattano diversi cronisti coevi. Il resoconto più ampio e dettagliato è quello genovese, steso da Jacopo Doria, membro di una delle più influenti casate cittadine, il cui fratello Oberto era capitano del Popolo e capo della flotta, ma bisogna considerare la sua particolarissima visuale di uomo partigiano del proprio casato e ricolmo d’orgoglio municipale. Più stringate le cronache pisane. Mi rifarò qui ad un bel saggio di Marco Tangheroni, pubblicato nel volume 1284. L’anno della Meloria (ETS 1984). Guido da Vallecchia, un nobile appartenente alla consorteria versiliese dei da Corvaia e da Vallecchia, ormai strettamente legata a Pisa, un personaggio che svolse diversi e delicati incarichi per il Comune pisano, riferisce che il 5 agosto la flotta pisana, capitanata dal podestà, il veneziano Alberto Morosini, e composta da 61 galee e 9 galeoni, senza contare alcune altre piccole imbarcazioni, rientrò a Porto Pisano, da cui era partita il 22 luglio per attaccare direttamente Genova ma senza successo. Il 6 agosto comparve la flotta genovese, forte di 107 galee, oltre alle piccole imparcazioni: la battaglia cominciò a mezzogiorno e si concluse dopo l’ora dei Vespri. A lungo incerta, terminò con la sconfitta pisana, molti i prigionieri insieme con 30 galee. I Genovesi rientrarono nella loro città il 9 agosto, vigilia di San Lorenzo, titolare della loro cattedrale. Sembra qui notare una certa enfasi sulle festività, come se i Pisani avessero accettato battaglia nel giorno di san Sisto e la vittoria genovese si collegasse al loro santo. Una cronaca anonima, probabilmente opera di un membro della casata dei Visconti esiliato da Pisa alla fine del Duecento, conservata nell’Archivio di Stato di Pisa, Archivio Roncioni, pubblicata da Emilio Cristiani nel 1958 e nota come Cronaca roncioniana, riferisce del consiglio di guerra tenuto alla viglia dello scontro: qui Jacopo Villani della casata dei Gaetani, esperto politico e uomo d’armi, considerando la schiacciante superiorità numerica genovese (qui si parla di 144 galee contro le 66 pisane), propose di accostare le prue alla palizzata di Porto Pisano e di affrontare il combattimento solo se le notizie sulla consistenza della flotta genovese si fossero rivelate infondate. Invece il Morosini e Guinizzello Buzzaccarini Sismondi vollero ad ogni costo uscire in mare e affrontare il nemico, con il rovinoso risultato già noto: 28 galee perdute (18 quelle genovesi). A capire la scelta pisana di accettare battaglia ci può aiutare quanto scrisse alcuni decenni dopo il fiorentino Giovanni Villani in un capitolo tutto improntato ad un giudizio morale e teologico: egli mette l’accento sul desiderio dei Pisani di ingaggiare una battaglia decisiva, che erano andati a cercare a Genova e forse in Corsica e che accettarono, pur in condizioni sfavorevoli, davanti a Porto Pisano. I Pisani erano «istanchi di sconfitte», in una situazione d’isolamento politico: la pressione politica e militare della lega guelfa (gli Angiò, Firenze e Lucca) costringeva infatti Pisa, a differenza di Genova con cui ormai tutti i centri delle due Riviere facevano blocco, ad affrontare contemporaneamente da un lato un problema politico militare di terra e dall’altro la questione della supremazia maritima con Genova. In realtà negli anni precedenti il 1284 la questione fondamentale era stata la sicurezza delle comunicazioni navali con la Sardegna, ove i Pisani erano da tempo riusciti a imporre il proprio controllo, ma le fonti ci fanno vedere il continuo stillicidio di catture d’imbarcazioni e di merci pisane provenienti dalla Sardegna, tra cui grandi quantità d’argento dalle miniere iglesienti, e poi c’era il problema del controllo della Corsica, contesa tra le due città.
2. La galea
Prima di affrontare il tema dei Pisani prigionieri, sarà bene dire qualcosa sulla galea, l’imbarcazione principale protagonista della battaglia. Il nome deriva dal greco galeos, pesce spada, perché era snella e veloce. Il suo coefficiente di finezza era un settimo e anche meno. Lunga intorno ai 40-45 metri, larga solo 5 metri, 5 e mezzo, era strutturalmente leggera e molto bassa di bordo. Soltanto a poppa, dove c’era l’alloggio degli ufficiali e il ponte di comando, lo scafo si sollevava un poco sulla linea di galleggiamento. La galea era dotata di uno o due alberi con vela latina, ossia alla trina, triangolare. I remi erano disposti su un solo ordine: ad ogni banco di voga corrispondevano due o tre remi, manovrati ciascuno da un uomo. Di norma le galee avevano circa 25 banchi di voga su ciascun lato: il numero dei rematori si aggirava tra i 100 e i 200. Fra rematori, marinai di coperta e milizie combattenti una galea poteva imbarcare sui 300 uomini se non di più. Lo scafo era aperto e quindi gli uomini erano esposti alle intemperie. Ipotizzando circa trecento uomini per galea, le 66 galee pisane imbarcavano quasi ventimila uomini, ma forse il numero era più alto. Una caratteristica tipica era l’apposticcio, un robustissimo telaio rettangolare incastrato sopra i bordi dello scafo e da questi sporgente, lungo quanto la zona scoperta della galea, ma notevolmente più largo. Esso sosteneva due passerelle longitudinali esterne ai rematori, sulle quali sostavano o combattevano gli uomini armati. Gli scalmi dei remi, fissati sull’apposticcio, offrivano un braccio di leva più lungo. L’apposticcio proteggeva il leggero scafo della galea dagli urti con le navi nemiche e sosteneva una stretta fila di scudi, che difendeva gli uomini da molte offese nemiche.
3. I Pisani prigionieri a Genova: le fonti
Abbiamo già notato divergenze nelle fonti sui numeri delle galee impegnate nella battaglia e catturate o affondate dalle due parti. Lo stesso avviene sui Pisani prigionieri a Genova dopo la battaglia della Meloria e sul loro ritorno a Pisa dopo la stipulazione della tregua tra le due città il 31 luglio 1299. Le notizie cronistiche stabiliscono un rapporto tra l’alto numero di uomini catturati e lo scarso numero di quelli liberati, cui alcuni cronisti aggiungono il basso livello sociale e le cattive condizioni di salute degli uomini rientrati in città. Le fonti di cui possiamo servirci non sono in realtà molte: alcune cronache – pisane, lucchesi, fiorentine e genovesi –, la maggior parte risalenti a diversi decenni dopo i fatti, un elenco di nobili pisani prigionieri, redatto nei primi decenni del Trecento a fini probabilmente cronistici, e più di trenta documenti – procure, vendite e testamenti –, quasi tutti conservati nei diversi fondi del Diplomatico dell’Archivio di Stato di Pisa. Sia la cronaca roncioniana sia Guido da Vallecchia non danno il numero dei Pisani catturati dai Genovesi, ma parlano solo delle galee perdute nella battaglia: 28 per la prima, più di 30 per il secondo. Alcune altre cifre sono offerte dai quasi contemporanei, Fragmenta historiae Pisanae: 27 galee catturate, 11.000 prigionieri e 1.285 morti. Piuttosto sintetiche sono le notizie delle altre cronache pisane, tutte risalenti al pieno Trecento: quella del manoscritto n. 54 dell’Archivio di Stato di Lucca parla di 23 galee catturate alla Meloria e di mille prigionieri tornati a Pisa dopo la tregua del 1299, cifra questa ripetuta sia da Ranieri Sardo – «forse a mille, tra stroppi e lloschi» –, sia dalla Cronica di Pisa. In questi ultimi due testi il numero dei prigionieri è aumentato a 15.000. Tra le cronache non pisane, particolarmente interessante è quella genovese già citata, che riferisce di 29 galee catturate e di 7 affondate nella battaglia, di circa cinquemila morti e di 9.272 prigionieri pisani contati nelle prigioni genovesi dopo la Meloria, inclusi anche quelli catturati nelle altre azioni militari del biennio precedente, non solo cittadini, ma uomini provenienti dall’intero contado pisano. La cifra dei prigionieri è ripetuta anche dall’epigrafe, redatta alcuni anni dopo la battaglia, apposta nella chiesa di San Matteo di Genova, ove però le galee catturate sono 33, e 7 affondate. Il cronista lucchese Tolomeo parla di 10.000 prigionieri, mentre Giovanni Sercambi si allinea alle cronache pisane trecentesche: 15.000 i prigionieri, 1.000 i liberati, e per di più «assai da poco». Il numero di prigionieri più alto è in Giovanni Villani, 16.000, dei quali solo un decimo era ancora vivo nel 1299. In conclusione, risulta chiaro come l’unico numero accettabile per i Pisani catturati dai Genovesi sia quello offerto da Jacopo Doria e dall’epigrafe di San Matteo, cioè 9.272, ricordando sempre come in questa cifra fossero comprese le persone catturate a partire dall’estate del 1282 – inizio delle ostilità –, provenienti sia da Pisa sia dal suo contado. Ricordiamo ad esempio Ugolino di Uguccione Vernagalli, pievano di Pianosa, preso nell’assalto genovese contro quell’isola nel maggio 1283, e il conte Bonifazio di Gherardo di Donoràtico, catturato il I maggio 1284 mentre si recava in Sardegna come capitano della guerra. Nei documenti pervenutici incontriamo diversi livornesi, e poi persone di Vico Pisano, Piombino, Calcinaia e Campiglia Marittima. Meno facile è appurare il numero dei morti, certo esagerato nei 5.000 di Jacopo Doria e forse più vicino ai 1.285 dei Fragmenta historiae Pisanae. Ad ogni modo, ci troviamo sicuramente davanti a cifre piuttosto elevate, e perciò capaci d’influire forse in modo non indifferente sull’andamento demografico cittadino. Per quanto riguarda il numero dei liberati nel 1299, è evidente come la cifra dei cronisti trecenteschi – mille – sia esageratamente bassa: certamente la mortalità fu piuttosto elevata tra i Pisani prigionieri, considerando le dure condizioni di detenzione ed il lungo tempo trascorso nelle carceri genovesi, ma occorre anche tener presente che un numero di persone forse non indifferente fu liberato per scambio con Genovesi prigionieri a Pisa o per motivi politici, mentre taluno riuscì a fuggire di prigione. A questi aspetti permettono di avvicinarsi le altre fonti giunte sino a noi. Un particolare rilievo assume un elenco redatto nei primi decenni del Trecento, di probabile origine cronistica, comprendente gli «homini nobili i quali nella detta rotta [scil. della Meloria furono] presi et per parte morti». Si tratta di circa 232 personaggi, suddivisi in 39 famiglie, a loro volta disposte in ordine topografico secondo la residenza principale in Pisa. La lista comincia con le due casate più importanti, i conti Della Gherardesca e i Visconti, e prosegue con l’intestazione in Ponte, cui segue l’enumerazione dei Lanfranchi, Gualandi, Marzi, Griffi (di Popolo), Orlandi, da Ripafratta, Tortini (di Popolo), Bocci, Duodi e Gaetani, Baldovinaschi, Lanfreducci, Gianni. Seguono le famiglie residenti nei quartieri di Mezzo – Azzi, Sismondi, Margatti, Carletti, Azzopardi, due che non si decifrano più, Tinti, Erizi – e di Fuoriporta – Federici (di Popolo), Casapieri, Casalberti, de Curte –, cui seguono tre casate fuori posto – da Porcari, che risiedevano in Kinzica, Verchionesi e da Caprona, che abitavano in Mezzo –. Si torna al quartiere di Fuoriporta con Casalei, Zacci, Malpigli, Masca, Visconti da Fucecchio e si termina con le famiglie del quartiere di Chinzica: Upezzinghi, Roncioni, Del Bagno, Pungolini da Campiglia. L’elenco non comprende dunque solo famiglie nobili, ma anche alcune popolari – Griffi, Tortini, Federici e forse Falcone –, che per qualche ragione l’anonimo estensore avvicinava alle casate nobiliari. Le 232 persone elencate sono però indicate in modo piuttosto sommario: normalmente manca il patronimico e talvolta anche il cognome assunto dai vari rami in cui ogni famiglia si era divisa; spesso è usato il diminutivo oppure il soprannome: tutti elementi che non sempre consentono l’esatta identificazione del singolo personaggio. Di un buon numero di essi vengono fornite anche notizie sulla cattura e sull’eventuale morte. I morti sarebbero stati 84, cioè il 36% del totale. Di questi, 59 morirono in prigione, quattro – Enrico di Gherardo Gaddubbi dei Gaetani, Puccio Soppo dei Lanfreducci, Enrico di Gaetano delle Stadere dei Casapieri ed Ermanno da Porcari – nella battaglia della Meloria, uno, Francesco Pungolini da Campiglia, combattendo (forse nella stessa battaglia), uno, Cava Sismondi, a Piombino, cioè in un’altra azione militare, e tre – Puccio Bellacera dei Gaetani, Francesco Malpasciuto dei Casapieri e Vanni Rufino degli Upezzinghi – all’ospedale, perché i Pisani «li tolsero il suo». Si tratta cioè di tre persone poste per ribellione al bando del comune di Pisa, che aveva perciò sequestrato i loro beni: poiché i prigionieri pisani dovevano mantenersi a loro spese, costoro, in miseria, finirono nell’ospedale che, tenuto dagli stessi carcerati pisani, si occupava dei prigionieri poveri o ammalati. La ribellione che provocò il loro bando si verificò del 1295, allorché Ugolino Visconti, giudice di Gallura, da sette anni alleato della lega guelfa toscana, si fece cittadino genovese ed ottenne la liberazione dei suoi aderenti, tra i quali si trovavano Visconti, Del Bagno e, appunto, Gaetani, Casapieri e Upezzinghi. Di 18 persone non si dice dove morirono: probabilmente a Genova, dal momento che uno di questi, Guinizzello di Gherardo Guinizzelli dei Sismondi, fu ucciso al principio del 1285 da uno dei Doria perché, insieme con altri prigionieri pisani, cercava d’intavolare trattative di pace. Qualcuno riuscì a lasciare il carcere: Federico Gaddubbi dei Gaetani fuggì, mentre Jacopo Villani dei Duodi, Coscio del Cane dei Sismondi, Truffa e Cino Taccoli dei Casapieri furono scambiati con Genovesi prigionieri a Pisa. Ci sono anche notizie sul luogo o sul modo in cui taluni furono catturati: Lemmo Casari dei Lanfranchi a Pianosa nel maggio 1283, Giovanni Orlandi, Bacciameo Sismondi e Gherardo Zacci con il conte Bonifazio di Donoràtico il I maggio 1284, un Baldovinaschi nel golfo di Tunisi, altri undici su navi, non sappiamo se in altre azioni navali diverse dalla Meloria, o in modi non più leggibili nel testo. L’elenco si presenta dunque molto importante per il numero e la qualità delle informazioni, verisimili ed accettabili, e in parte verificabili da altre fonti. Si pone però il problema della completezza dei dati offerti: la risposta è in questo caso negativa. Da altre fonti conosciamo personaggi che, pur appartenendo alle famiglie qui nominate, non compaiono nell’elenco: si tratta di Gessolino di Enrico Gessolini dei Visconti, Guinizzello detto Cello Buzzaccarini dei Sismondi, di Lotto di Schettino Masca e Lando di Pericciolo Pelliccia dei Casapieri. Mancano poi notizie sulla cattura a Pianosa di Ugolino Vernagalli e, al largo della Sardegna, del conte Bonifazio di Donoràtico, sulla liberazione nel 1292 del conte Lotto di Ugolino di Donoràtico e di alcuni suoi seguaci, e, nel 1295, dei fautori di Ugolino Visconti, benché quattordici di costoro compaiano nel nostro testo. Nonostante quest’incompletezza, particolarmente interessanti sono i dati sulla mortalità – 36% – e le notizie su scambi o fughe di prigionieri. Probabilmente tali elementi peccano per difetto, cioè che sia il numero dei morti in prigionia sia quello delle persone scambiate o fuggite siano stati in realtà più alti, ma certo sempre sensibilmente inferiori alle cifre suggerite dalle cronache trecentesche, per le quali meno di un decimo dei prigionieri catturati fu liberato nel 1299. Altre fonti ci fanno vedere nei particolari le vicende di alcuni Pisani prigionieri: si tratta di più di trenta documenti – per lo più procure, vendite, testamenti –, che illustrano più da vicino, e talora in maniera drammatica come nelle vendite effettuate causa necessitatis, le condizioni di vita dei carcerati a Genova. Essi erano detenuti «in palatio de Modulo», al molo (Genova era un porto da molo) mentre il conte Fazio stava nella «domus et turris Salvaticorum» nel 1289 e nel 1298 era «in solaio domus d. Ansaldi Alberigi civis Ianuensis». Sugli scambi tra prigionieri pisani e genovesi interessanti notizie sono offerte dall’unico registro pervenutoci delle provvisioni degli anziani anteriore al 1299, cioè quello del bimestre luglio-agosto 1297, ove si trovano cinque di tali scambi. I prigionieri genovesi erano detenuti a Pisa nella torre dei Familiati, posta nella parte settentrionale di via Santa Maria, là dove poi sorse il Collegio Ferdinando, ed ‘appartenevano’ a singoli cittadini pisani, i quali forse li avevano catturati e potevano ‘venderli’ ad altri desiderosi di operare scambi per liberare loro congiunti. Il prezzo di questi prigionieri era molto alto e variava secondo la condizione sociale: negli esempi pervenutici si va da un minimo di quattro fiorini d’oro ad un massimo di cinquanta; il compratore doveva inoltre versare alla camera del Comune di Pisa una cifra, corrispondente ad un decimo della somma pagata, per ottenere il permesso di poter operare lo scambio. Si tratta tuttavia di una testimonianza limitata ad un periodo molto breve: non sappiamo se quei cinque siano stati tutti gli scambi operati in quei due mesi né tantomeno quale sia stato il ritmo e la frequenza di tali operazioni. Altri due scambi sono testimoniati da due pergamene del 1291.
4. Il ruolo dei carcerati pisani nella politica cittadina
Benché carcerati e lontani dalla loro città, i Pisani detenuti a Genova riuscirono a svolgere un ruolo anche importante nelle vicende politiche pisane, delle quali a loro volta subirono i contraccolpi. L’obiettivo perseguito era, ovviamente, di poter rientrare in patria, evento subordinato ad una tregua o ad un accordo per la pace tra Pisa e Genova. Per tale motivo i Pisani prigionieri appoggiarono, nel febbraio 1285, la nomina a podestà per dieci anni del conte Ugolino di Donoràtico, il quale, come persona accetta ai guelfi toscani, pareva il più adatto ad intavolare trattative di questo genere. Infatti Ugolino cercò di giungere ad un accordo con Genova, cui i Pisani prigionieri offrirono la loro intermediazione: principali fautori furono, secondo la cronaca roncioniana, Guinizzello Sismondi, Jacopo Villani dei Duodi, un certo Marco, Guglielmo Ricoveranza dei Visconti e il notaio Guelfo Pandolfini, con il benestare di uno dei due capitani del popolo di Genova, Oberto Spinola. A ciò si opposero i Doria – a cui apparteneva l’altro capitano, Oberto –, che uccisero Guinizzello, e le trattative non andarono in porto. Tre anni più tardi, nella primavera del 1288, i Pisani prigionieri a Genova riuscirono a concludere una pace tra le due città, firmata il 15 aprile 1288: negoziatori ne furono i già noti Guglielmo Ricoveranza e Guelfo Pandolfini, e inoltre Jacopo Buzzaccarini dei Sismondi ed il notaio Jacopo d’Ildebrandino e il testo del trattato fu convalidato anche con i sigilli del conte Bonifazio di Donoràtico, di Oddone de Pace e del giudice Ugo Guitti. Questa pace incontrò un largo favore nella cittadinanza pisana, ma non nei due signori di Pisa, il conte Ugolino e Nino Visconti, di cui colpiva duramente gl’interessi sardi. Essi perciò cercarono di ostacolarne l’attuazione, fomentando così l’opposizione alla loro signoria. L’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini e una serie di cittadini, sia nobili sia popolari, tra i quali si distinguevano i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi, trattarono segretamente con l’ambasciatore genovese – a Pisa per l’attuazione del trattato – per rovesciare la signoria di Ugolino e Nino. A questi accordi segreti accedettero anche i Pisani prigionieri, o almeno una buona parte di essi: il governo genovese non voleva apparire immischiato nella vicenda, ma permise al proprio ambasciatore di tornare a Pisa con lettere del conte Bonifazio incitanti alla rivolta. Senonché, quando le navi genovesi giunsero alla foce dell’Arno, l’arcivescovo ed i suoi alleati avevano già rovesciato da soli il I luglio la signoria di Ugolino e di Nino e perciò non intesero ottemperare alle promesse fatte ai Genovesi. I Pisani rimasero dunque in carcere a Genova. Questi avvenimenti si ripercuoterono sui Pisani detenuti, provocando una forte frattura al loro interno: da una parte il conte Bonifazio, uno dei maggiori fautori della caduta di Ugolino e Nino, e la maggior parte dei prigionieri – legati alla tradizionale politica pisana ghibellina –, dall’altra lo stesso figlio di Ugolino, Lotto, i Visconti ed i loro aderenti – Upezzinghi, Gaetani e altri –, spinti ad allearsi con i nemici di Pisa, la taglia guelfa toscana e la ghibellina Genova. In seguito a questa convergenza, nel 1292 i Genovesi liberarono alcuni di costoro: il conte Lotto, che sposò una figlia di Oberto Spinola e, con i suoi due fratelli superstiti, Guelfo e Matteo, si fece cittadino genovese, e taluni suoi innominati fautori. Tre anni più tardi, nel 1295, anche Ugolino Visconti divenne cittadino genovese, sì che furono liberati i Visconti suoi parenti ed i suoi aderenti. La cronaca roncioniana dà i nomi di 25 persone, tra le quali si riconoscono sette Visconti – Guglielmo Ricoveranza, Ranieri di Persivalle, Angelo di Frangipane, Vanni Pancaldi, Nino di Guglielmo Corso, Gaddo di Guglielmo da Bozzano e Lippo Quintavalle –, tre Upezzinghi – Cino Maco, Giovanni Ventriglio e Castellano da Calcinaia – e uno ciascuno dei Duodi, Gaetani, Casapieri e Del Bagno – rispettivamente Enrico Cavatorta, Meuccio Monacella, Puccio Scalabrino e Bindo Bufalo –. Tra gli altri è poi riconoscibile Marco Della Barba, appartenente ad una famiglia di mercanti di Popolo, anziani nel quartiere di Fuoriporta. Tutti costoro, in quanto aderenti al ribelle Ugolino Visconti, vennero anch’essi considerati ribelli dal Comune di Pisa, posti al bando e i loro beni confiscati. 5. Il ritorno a Pisa La maggior parte dei Pisani sopravvissuti nelle carceri di Genova poté rientrare a Pisa solo dopo la stipulazione della tregua ventinovennale tra le due città, il 31 luglio 1299. In questa occasione il Comune di Pisa provvide ad una pacificazione generale, concedendo un’amnistia ai cittadini banditi per reati sia comuni sia politici, con l’esclusione dei soli eredi di Ugolino Visconti. In questo modo anche i Pisani liberati dai Genovesi nel 1295 poterono rientrare nella loro città: a noi sono giunti gli atti relativi a due di costoro, Gaddo Visconti da Bozzano e Meuccio Monacella dei Gaetani. Tra coloro che poterono tornare in patria dopo la tregua del 1299 figuravano persone di notevole rilievo e prestigio sociale, in grado di riprendere il proprio posto nella vita cittadina: in primo luogo il conte Bonifazio di Donoràtico, che svolse fino alla morte, avvenuta il 25 novembre 1312, un ruolo di primo piano nella politica pisana, ma possiamo anche ricordare il giudice Ugo Guitti, più volte anziano nel primo ventennio del Trecento, oppure quei notai che nel primo decennio del XIV secolo furono anziani o notai e cancellieri degli anziani. La lunga prigionia di tanti uomini validi e nel fiore degli anni aveva provocato a Pisa squilibri sia economici sia demografici: molti avevano dovuto vendere i propri beni per potersi mantenere in carcere e certuni, specialmente i meno abbienti, erano andati praticamente in rovina; le loro mogli non avevano potuto risposarsi né avere figli. Tutto ciò, unito ai lunghi anni di guerra, ebbe riflessi anche importanti nella vita economica, sociale e politica pisana e certo contribuì ad accentuare quegli elementi di crisi già presenti in città da qualche decennio, anche se non possiamo attribuire a questi fattori una funzione decisiva e determinante nelle successive difficoltà incontrate dal comune di Pisa nel Trecento.
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