Nel chiaroscuro del laboratorio, Vito restò immobile per un attimo a guardare le sue mani ricoperte di impasto. Faceva sempre così quando il nervosismo lo assaliva, tipo due volte al giorno. L’unico rumore percepito erano i colpi che Jadal stava dando sul banco per amalgamare al meglio lievito e farina. Jadal sapeva poche parole d’italiano, ma sapeva fare molto bene il pane: due requisiti di pari importanza per Vito, determinanti quando decise di assumerlo. Da quando sua moglie lo aveva lasciato, un paio di anni prima, era rimasto solo nella bottega a far fronte agli ordini dei suoi clienti. Era la grande distribuzione cittadina a rifornirsi da lui. La bottega pensata per la vendita diretta era sparita insieme al suo matrimonio, perché Vito non aveva mai avuto un senso spiccato per le relazioni pubbliche. Il laboratorio venne così destinato a rifornire alcuni supermercati della città. Circa cento chili di pane ogni giorno, schiacciate comprese: una mole di lavoro che portò Vito alla necessità - che è cosa diversa dalla volontà - di trovare un assistente che lo aiutasse nella produzione. Jadal, con le sue poche parole conosciute e ancor meno pronunciate, si presentò subito come il candidato ideale.
Era questa la nuova quadratura di Vito, comodamente stabilitosi in un'altra dimensione rispetto all'essere umano. Sveglia all'una e trenta di notte, caffè, sigaretta, arrivo in laboratorio intorno alle due e trenta, impasto e forno fino verso le 6.30, arrivo dei furgoncini dei supermercati, carico alle 7, pulizia laboratorio, paga a Jadal in contanti e sostanzialmente in nero, ritorno a casa, pastasciutta, pennichella fino verso le 15, sveglia, passatempi vari, cena, alle 20 a letto. Uno schema da venti parole complessive nell’arco di una giornata e rapporti umani ridotti all’indispensabile, divenuto perfetto quando la voce “passatempi vari” acquistò un qualche significato grazie ai documentari sugli animali in tv e al poker su internet. La sua unica vera passione era la caccia, ma ormai da tempo aveva smesso di rinnovare il porto d'armi, tanta era la sua iniziativa vitale, relegando quel piacere al pranzo domenicale al capanno appena fuori città con gli ex colleghi cacciatori: l'ultimo vero contatto umano rimasto – e richiesto - a Vito.
Quella settimana sembrava scorrere come una fotocopia di quelle precedenti. Il lunedì, davanti allo specchio, Vito si chiese se radere la barba ispida che gli copriva mezzo volto, ma non ne vide il motivo. Indossò la camicia di flanella sopra la canottiera con cui aveva dormito e andò al lavoro a bordo della sua Fiat Panda attraverso il buio che riempiva le strade deserte. “Mph” fu il consueto saluto rivolto a Jadal quando questi entrò nel laboratorio, a cui l'assistente rispose con un più articolato “buongiorno”. Per le quattro ore seguenti, furono le uniche parole pronunciate nel retrobottega. Qualsiasi comunicazione che poteva essere svolta con un gesto, era benvenuta e prediletta. Un sussulto arrivò intorno alle 7, all'arrivo del primo furgone arrivato per il rifornimento, da cui scese il solito dipendente indossando una mascherina. La stessa indossata dal secondo, poi dal terzo. Vito notò la stranezza, ma non era tipo da fare domande. Infatti non ne fece.
Lo stesso copione andò in scena il giorno dopo, con la stessa indifferenza. Una volta chiuso il laboratorio, Vito salì sulla sua Panda respirando l'odore prepotente della cenere dispersa sui tappetini, e si indirizzo verso casa, felice di trovare meno traffico del solito. L'appuntamento del martedì era con “Le meraviglie del sottosuolo”: due ore di documentario su lombrichi e altri invertebrati che popolano il mondo sotto di noi permettendo il continuo fiorire della vita in superficie. Vito non ne perdeva una puntata, pensando a quanto lavoro sprecato svolgevano quegli esseri minuscoli. La trasmissione iniziava alle 18, così prolungò la pennichella di oltre un'ora. Il mercoledì invece era la dedicato a balene e ad altri grandi pesci degli oceani, ma quel giorno la puntata venne cancellata per l'edizione speciale di qualche Tg, di cui non poteva interessargli di meno. Vito aveva detto addio a Tg e quotidiani, vista la scarsa importanza dell'attualità globale nei confini della sua dimensione.
Spense la tv e prese il telefono, collegandosi all'applicazione del poker, installata grazie all'aiuto di un vecchio amico cacciatore rapito dall'era dei social sebbene fosse più vicino ai sessanta che non ai cinquanta. Ridicolo, per Vito, ma comunque utile per il poker, a cui si dedicò per il resto del pomeriggio senza mai alzarsi dalla poltrona logora del suo salotto. La strada deserta della notte era una sensazione capace di donargli molta pace: attraversare la città sotto le finestre ancora chiuse dei palazzi risaltava tutta la bellezza della dimensione che si era costruito con fatica. Negli ultimi giorni però quella stessa pace riusciva a prolungarsi anche nelle prime ore del mattino, quando circolavano ben meno macchine del solito. Dall'interno del laboratorio Vito non sentiva più il roboante frastuono del traffico, né il chiacchiericcio delle persone al cellulare che passavano sul marciapiede di fronte alla sua porta rigorosamente chiusa.
Il venerdì il lavoro si intensificava in vista del fine settimana, quando i supermercati si riempivano di famiglie pronte ad allestire pranzi e cene sontuose da sbattere in faccia a ospiti che alla fine poco sopportavano. Questa almeno era la visione di Vito, a cui però poco interessava al momento. Stanco anche lui della settimana che stava per finire, sognava il cinghiale arrosto che avrebbe gustato insieme ai suoi vecchi amici: un gruppo di cacciatori che si esprimeva più a mezze sillabe e grugniti che non a parole articolate, che beveva vino e rideva di gusto. Compagnia perfetta. “Speriamo basti”, gli disse il sabato mattina il dipendente non appena finito di caricare il furgone con tutto il pane, sempre con indosso quella strana mascherina. “Perché? È quello di sempre”, rispose Vito. “Come perché? Ci stanno svuotando gli scaffali”, riprese quello. “Bene così allora”, concluse Vito prima di rientrare nel laboratorio, lasciando il dipendente del supermercato con un’espressione sbigottita.
Arrivò la domenica e Vito riuscì a dormire fino alle 8. Poi indossò i pantaloni mimetici e i pesanti anfibi con cui andava al capanno, caratterizzati da anni di terriccio incastrato sotto le suole. Uscì di casa, salì sulla sua Panda e imboccò il grande viale che conduce fuori città, rimanendo di stucco nel vederlo deserto. Controllò se in tasca avesse messo la banconota da 100 euro per pagare pranzo e scommesse al capanno. Due chilometri dopo una pattuglia dei carabinieri lo invitò ad accostare. Anche loro indossavano quelle strane mascherine. Gli chiesero l’autocertificazione e lui rispose: per cosa? Gli spiegarono che c’era un virus e che tutti dovevano restare a casa. Vito disse che non ne sapeva nulla e loro gli chiesero dove viveva. Lui spiegò che faceva il pane e loro gli presentarono l’ammenda. “260 euro? - chiese Vito – Io ne ho solo 100 con me”. Loro spiegarono che non era una multa, ma una denuncia e lo invitarono a tornare a casa, guardandolo in quegli occhi disorientati. “Ma… il capanno?”, chiese Vito. “Al capanno non c’è nessuno e non ce ne sarà per diverso tempo”, rispose il brigadiere.
Il lunedì mattina, in laboratorio, Vito si voltò verso Jadal non appena entrò, chiedendogli come se la passasse e da quanto tempo fosse arrivato in Italia. “Raccontami”, invitò a parlare Jadal, che intanto aveva assunto un’espressione stranita e impaurita mai vista prima…
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"