“Ci pensa la Bice, m’hanno detto. La Bice sa fare pure i vestiti da sé. Lo dicano tutti”.
“Ci pensa la Bice. Eh già. Sì, sì, pensa a tutto la Bice. Sì, sì, certo, come no. La Bice governa le bestie, la Bice fa da mangiare. La Bice cura la casa e pure le persone. O ninni, l’è la mi’ mamma che sa fare i vestiti, ma ora non ci vede mica bene per il diabete e quindi nulla”.
Rimasi lì immobile, con la stoffa a fiori tra le braccia come una venditrice al bancone che cerca di convincere una cliente che all’improvviso scappa via. Rimasi lì, quasi sull’uscio e senza parole, davanti al tavolo di legno che era in mezzo a noi due a segnare la distanza che ci separava. Ancora oggi, dopo tanti anni, quando ripenso a quel momento non so spiegarmi perché rimasi zitta. La Bice aveva chiuso la porta dietro di sé ed era sparita nella stanza in fondo. Con quella frase lapidaria mandò all’aria i miei piani e io ero senza vestito nuovo per il matrimonio di Bartolo. Per giunta da sola, in uno stanzone che condividevo con due mosche che si rincorrevano sulla pagnotta appoggiata sul tavolo, avvolta in un canovaccio, e con un giovanotto appeso alla parete che sembrava fissarmi da quella posizione in alto, quasi a controllare che cosa stesse accadendo.
Mi aveva brontolato. Lo sapevo, lo sanno tutti qui e io avevo immaginato la sua reazione alla mia proposta, eppure non avevo scelta. Dovevo provarci, mancava solo un mese al 25 aprile. Credevo di conquistarla con una lusinga che correva di bocca in bocca. Ma la Bice non tornava. Il suo silenzio era un modo per farmi capire che dovevo andar via, anche se avevo da aspettare tre ore prima che arrivasse la corriera e non avrei saputo dove altro andare. Ripiegai la stoffa nell’incarto del negozio e incrociai di nuovo, senza volerlo, lo sguardo del ritratto in bianco e nero. Aveva qualcosa di familiare che non riuscivo ad afferrare. Baffetti e capelli ricci neri, impomatati, camicia bianca, colletto inamidato, cravatta scura. Il viso è a tre quarti, nessun cenno di sorriso. Il naso è largo, gli occhi grandi, luminosi. La vecchia cornice di legno lasciava intuire che era lì da parecchio tempo.
“E ora che metto al matrimonio di Bartolo?”, chiesi all’uomo del ritratto, esternandogli così il pensiero che più di tutto mi tormentava in quel momento.
“Con chi stai parlando? Parli da sola? Sei strulla?”. La Bice ripiombò in stanza, facendomi sobbalzare. Capì con uno sguardo che stavo fissando quel ritratto, ma non disse nulla.
“Pensavo ad alta voce”, e infilai il cappotto, “grazie lo stesso. Vo’ via”.
“O ninni, mi levo alle 4 e sto tutto il giorno a lavorare nei campi. A fa’ i’ cchè? A fa l’omo e la donna, ecco i che fo’. E a me chi ci pensa? Mica la volevo fare io ‘sta vita”, bofonchiava, prendendomi dalle mani il pacchetto con la stoffa che aveva cominciato ad aprire e a guardare, quasi come se la interrogasse per capire che cosa farne venire fuori. La piegò in due e con i lembi che teneva alle estremità mi cinse la vita. Poi con un cenno della testa mi fece capire che dovevo togliermi il cappotto perché mi avrebbe preso le misure.
“Si può fare la gonna a ruota?”, proposi.
“E che sei la Loren?”, fu la risposta che incassai, ma che tenni per buona, visto che alla fine si era convinta e avevo ottenuto un risultato insperato. Usava il metro da sarto, che aveva nel frattempo preso dal mettitutto, con più disinvoltura di quanto non volesse far credere, conosceva bene forme e proporzioni, umettava velocemente le dita tozze per infilare il filo nella cruna dell’ago. Nel giro di mezz’ora aveva segnato tutto su una pagina di un vecchio calendario, lunghezza delle maniche e della gonna, girovita e i fianchi. Vista così da vicino sembrava anche più giovane, la Bice. Le rughe erano solo segno di fatica sotto il sole dei campi, non di vecchiaia. Aveva i capelli ricci, neri, lanosi e i seni grossi.
“Allora? Il figliolo della Bianca si è sistemato?”, mi chiese, mentre rimettevo la sottoveste increspata sotto la gonna.
“Vedrai! Sono già due anni che fa all’amore!”. “E quello lì? L’è tuo marito da giovane? Bell’omo!” chiesi, alzando il mento verso il ritratto antico del giovanotto, appeso alla parete. Ormai mi sentivo accolta a casa sua, quasi un’amica di vecchia data che si può permettere di fare domande e avviare conversazioni, e invece non era così. La Bice, colta di spalle dalla mia domanda, non si voltò. Capii che non era il tipo di conversazione da intraprender perché rimase impietrita per alcuni interminabili secondi. Posò la stoffa sulla brandina malconcia che era nell’angolo opposto a me, e si appoggiò al tavolo, con le spalle ricurve sotto una sofferenza che le avevo fatto ripiombare addosso. La sua solidità improvvisamente vacillò.
“L’è i’ mi’ fratello Franco, disperso in Russia”
, spiegò, dando voce ad una sofferenza che veniva da lontano. In piedi, distante, aveva aperto un varco fra i ricordi che arrivavano rabberciati. Il Mecacci non era più tornato. Era morto o era vivo ed era rimasto lì? Aveva forse perso la memoria a seguito di qualche incidente? La Bice aveva anche incontrato per caso una giornalista in giro per la Toscana, e le aveva anche chiesto una mano, ma senza successo, perché cercare un disperso in Russia era come provare a rinvenire un ago in un pagliaio. Gliel’aveva chiesto con dignità e amore per quel fratello che non c’era più. Per sua madre che lo piangeva ogni giorno. E per lei stessa perché aveva dovuto mettere da parte speranze, aspettative, desideri. Quella foto alla parete perpetrava ogni giorno un dolore che io avevo contribuito, mio malgrado, a rinnovare. Le ricordava quotidianamente perché si trovasse lì, nella casa dei genitori, a portare avanti la baracca, ricoprendo un ruolo che non era il suo perché in realtà spettava al primogenito ricevere in eredità la campagna dei genitori, accudirla e farla prosperare per farci vivere la sua famiglia. Quella foto era lì per testimoniare la ragione delle sue scelte, obbligata dal padre a prendere il posto del fratello, a occuparsi d’un colpo di tutto, senza poter obiettare, senza poter scegliere cosa fare della sua vita. La campagna di Russia aveva spezzato due vite in un colpo solo, quella di Franco e quella di Bice che si era promessa a Novello. Ma Novello abitava lontano dal paese e avrebbe voluto che lei andasse nella sua campagna, accanto a lui, e il mancato trasferimento, in una casa tutta sua, con il ragazzo dei suoi sogni, spezzò per sempre il suo cuore. La Bice aveva costruito la sua forza sulle rinunce e sulle lacrime. Avrei voluto avvicinarmi e dirle che mi dispiaceva quando iniziò a parlarmi, continuando a darmi le spalle.
Ma non lo feci per rispettare quella corazza che non tollerava di essere scalfita nemmeno da una carezza. Ringraziai e feci per andarmene perché il tempo delle confessioni era finito, il mio posto non era più lì. La corriera sarebbe arrivata a breve. All’improvviso la Bice dagli occhi asciutti si girò verso di me: “Te la fo’ la gonna a ruota”.
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus".