I viaggi della quarantena

Maurizio Gazzarri

05/05/2020

Il paese in diretta
Un giorno, passeggiando senza fretta, arrivai nel paese degli uomini in diretta. Uomini e donne, anziani e bambini, architetti e ingegneri, tutti avevano una telecamera piantata sulla faccia. Diecimila abitanti e diecimila webcam, fotocamere e treppiedi. Ognuno raccontava e raccontava, parlava e parlava senza sosta. C’erano quelli che si esibivano con dovizia e perizia e quelli che non avevano nulla da dire, ma lo dicevano lo stesso. Quelli che usavano il cellulare di ultima generazione e quegli altri con il computer portatile, quelli con la webcam traballante e quelli iperfantaprofessionali con cavalletto, luci e un telo verde dietro alle spalle, quelli con la go-pro in superaccadì e quelli che avevano rispolverato un antico superotto. Quelli con lo sfondo naturale fatto di gatti, padelle e divani e quelli che esibivano libri mai aperti. Tutti dallo stesso lato della telecamera, tutti attori e nessuno spettatore. Visualizzazioni zero, zero like, zero commenti. Passeggiando per le strade si potevano sentire dalle finestre aperte i discorsi in diretta. Chi raccontava la propria vita di prima e chi spettegolava sulle vite degli altri, chi leggeva un romanzo d’amore e chi spoilerava l’ultima puntata dell’ultima stagione della serie tv del momento, chi commentava un film visto vent’anni prima e chi senza freni prevedeva il futuro, chi impartiva lezioni di matematica e chi recitava quel poeta incomprensibile e banale che piaceva a tutti, chi fingeva di fare la telecronaca della finale dei mondiali di calcio e chi dava istruzioni per fare la pizza in casa. A un certo punto mi sono accorto d’esser diventato il protagonista di una delle dirette. Con la telecamera girata verso la strada, un ragazzino sì e no di terza media, stava riprendendo la mia passeggiata solitaria. “Ed eccolo che arriva, si avvicina senza timore, l’ultimo uomo sulla terra ad avere soltanto due occhi. Passeggia con sguardo curioso. Mi sta guardando, ma non mi fa nessuna paura. Mi sembra del tutto innocuo e indifeso. Chissà come fa a guardare il mondo senza un obiettivo puntato sulla faccia, senza una telecamera che memorizzi ogni parola, ogni smorfia, ogni pensiero. Chissà cosa si prova. Chissà se è brutto, oppure è bello. Quasi quasi glielo vado a chiedere. Quasi quasi scendo a dare una controllatina a come si vede il mondo con due occhi soltanto. Quasi quasi…”. Off.
 
La città degli svuota soffitte
Fuggendo via dalla città delle case sfitte, arrivai nel paese degli adulti svuota soffitte. La prima cosa dalla quale fui colpito fu un bigjim degli anni ’80 gettato dal secondo piano di una casa a due piani con cantina e soffitta. Beh, in realtà tutte le case erano fatte così. Fatti pochi passi, vidi accanto a un cancello verde due grandi buste trasparenti: erano stracolme di giocattoli, bambole invecchiate e mattoncini inconciliabili. E poi, ancora, cumuli di peluche accanto a un cassonetto grigio, vecchie console di videogame ormai dimenticati, migliaia di microgiochi trovati nei sacchetti di patatine o nelle confezioni di merendine, trottole, allegri chirurghi, sapientini, vecchie barbie dalla moda parecchio vintage… Per strada, nessuno o quasi. Mi fermai accanto a un operaio che stava caricando i giocattoli su un camion per la raccolta differenziata.
“Ma che succede, come mai tutti questi giochi e giocattoli abbandonati?”
“Non lo sai? Oggi è il giorno destinato alle pulizie delle soffitte. Genitori di figli ormai grandi si stanno finalmente liberando di tutti i giochi degli anni ’70, ’80, ’90… Basta con questa nostalgia! Chi ha adesso quaranta o cinquant’anni cosa se ne fa dei giochi di quando era bambino? Prendono solo polvere e spazio! Il sindaco ha ordinato di buttare tutto e tutti sono ben felici di disfarsi di questi stupidi oggetti!”
“Ma non è un peccato? Questi giochi potrebbero essere ancora divertire i bambini di oggi! Potrebbero ancora suscitare ricordi ed emozioni a chi li ha usati quando era piccolo.”
“Dopo decenni di polvere e tarme, proprio oggi dovrebbero averne voglia? Non ci credo.”
E via, prese con due mani tutti i giochi accatastati e li gettò con una smorfia di soddisfazione nel cassone del camion. Vidi, poi, una signora che stava spostando una grossa scatola dalla quale spuntava una grande casa tutta rosa e bianca: chissà quante avventure erano state vissute in quella casa delle bambole.
“Signora, perché getta via quel gioco?”
Lei, dapprima mi guardò un po’ di sottecchi, facendo finta di non aver sentito. Poi, vedendomi sinceramente dispiaciuto, si avvicinò e mi disse piano piano: “Non li sto gettando, li sto regalando a chi può darli ai bambini di oggi che non possono permettersi di comprarne. Faccio parte di un’organizzazione segretissima che raccoglie, sistema e dona i giochi ai bambini e alle bambine povere. E anche quell’operaio che vede laggiù col camion ne fa parte, anche se ha l’ordine di non parlarne con nessuno…”
La città degli svuota soffitte mi aveva fatto sobbalzare l’umore, passando dalla tristezza alla felicità in un momento. Come quando si riceve proprio quel giocattolo che tanto avevamo sognato e che ci sembrava impossibile poter avere.
 
Borgo Quaranta
Dopo una corsa di chilometri millanta, mi ritrovai in un battibaleno nel Borgo Quaranta. All’ingresso del piccolo paese era stato messo un grande cartello con una scritta bianca su sfondo rosso: “Avviso: solo chi sta per festeggiare i suoi quarant’anni può entrare in questo paese e si deve impegnare a uscirne entro tre giorni dal compleanno.” Wow, un paese dedicato a chi deve varcare la soglia degli “anta”. Contro lo sconforto della mutazione e per condividere con i simili un momento traumatico della vita! E io lo posso dire, avendolo passato da quasi dieci anni… Ma, shhh, non lo dite a nessuno di Borgo Quaranta, altrimenti mi cacciano via. I luoghi di Borgo Quaranta hanno nomi parecchio originali. Accanto a Via della Gioventù Perduta c’è Piazza Lo Sguardo al Futuro. All’angolo di Largo Profilo Adiposo c’è Corso di Pilates, dove si trova la Palestra dei Passi Svelti. La strada con i negozi si chiama Corso dell’Ultimo Treno. C’è poi una larga via alberata che percorsa in un senso si chiama Viale del Tramonto, percorsa nell’altro diventa Viale dell’Aurora. Il Borgo è attraversato dal Fiume Della Vita e due ponti collegano le sponde: il Ponte di Mezza Età e il lungo Ponte del Primo Maggio.
La piazza principale del paese è la Piazza dei Pensieri Positivi, dove si festeggiano tutti i compleanni dei quarantenni. Una piazza circondata da bei palazzi e locali accoglienti: c’è il Palazzo Arcobaleno, noto per le sue mostre di fotografie in bianco e nero, il Palazzo dei Nuovi Sogni, dove si possono scrivere gli antitestamenti (cioè la lista dei desideri, degli obiettivi e degli abbracci che vorremmo ricevere), e, infine, il Palazzo del Comune Sentire. Nella stessa piazza ci sono il Bar Ando sull’Età, dedicato a chi si ostina a rimanere trentenne, il Bar Betta, per gli uomini che vogliono sembrare più maturi di quello che sono, il Bar Camenandosi, molto ospitale con chi ci prova sempre e comunque, il Bar Collante, per chi non regge l’alcol. Nel Bar Zotto e nel Pub Algia nessuno vuole mai entrare: chissà perché… Gli abitanti, si diceva, sono tutti in procinto di festeggiare o hanno appena superato i quarant’anni. C’è chi arriva con grandi aspettative e si ritrova ad andar via tale e quale a prima. C’è chi arriva con indifferenza e alla fine è felice della differenza. C’è qualcuno che se ne va via triste. Ma c’è chi, e sono la maggioranza, capisce fino in fondo di non essere che uno o una dei tanti e, soprattutto, che le rughe non sono che il pentagramma di un nuovo spartito; e se ne torna nella propria vita più maturo, non per il passaggio alla nuova decade, ma per il nuovo sguardo sul domani.
E io, che dai quaranta ci son già passato da un bel po’, piano piano, alla chetichella e senza dar nell’occhio, esco da Borgo e m’incammino nel paese successivo: il Villaggio Cinquanta. Ma questa è un’altra storia…
 
Il collezionismo di attimi
Un giorno, scapicollandomi sui pattini, giunsi in un istante nel Paese dei collezionisti di attimi. In questo posto ogni persona porta sempre con sé un taccuino e una matita o, i più tecnologici, uno di quei telefonini sottili sottili. I più arditi girano con la macchina fotografica al collo e la Lettera 22 sotto al braccio, pronti a scattare una foto o a immortalare un istante battendo sui tasti della macchina per scrivere. Da lontano si riconoscono i bulimici, quelli che appuntano qualunque cosa, tanto che, alla fin fine, è come non appuntarsi niente. In un parco giochi incrociai una coppia con un figlio che avrà avuto nemmeno tre anni. Erano intenti ad ascoltare e collezionare ogni parola detta dal piccolo, ogni frasetta embrionale, ogni termine storpiato. Per il vigile urbano del Paese la collezione di attimi era una raccolta di fotografie di buone azioni, di auto parcheggiate come si deve, di piste ciclabili non invase da motorini, di gomme masticate gettate nei cestini. Erano talmente tutti presi dal collezionare i propri attimi che nessuno si era accorto di un taccuino dimenticato su una panchina. Lo raccolsi e lo aprii, sperando di trovare il nome o l’indirizzo del proprietario. Non potei fare a meno di sedermi e di mettermi a leggere le prime pagine.
Quegli unici tre secondi in cui hai tenuto la testa appoggiata sulla mia spalla.
L’ondeggiare della coda dei tuoi capelli.
Quella volta che mi hai chiamato da lontano allungando a dismisura l’ultima vocale del mio nome.
Quando mi hai detto “Ci scattiamo una foto?” e dietro di noi è sbucato l’arcobaleno.
Il rumore dell’incarto del libro che mi hai regalato.
Incrociare il tuo sguardo nello specchietto retrovisore.
Una risata non trattenuta a una mia battuta scema.
Quella volta che ho detto “Magari!”, senza rendermene conto.
Pagine e pagine di micro ricordi, di istanti millimetrici, esatti e irripetibili. Scritti con inchiostri diversi, con penne diverse. Ora che lo notavo, ogni frase aveva una calligrafia diversa! Sicuramente composto da persone diverse! Sembrava proprio una collezione collettiva, comunitaria e condivisa. Chiunque poteva prendere il taccuino e aggiungere un suo attimo da collezionare. Chiunque poteva leggere gli attimi degli altri, senza conoscerne i singoli autori. Perché è l’attimo quello che conta e non chi l’ha vissuto. E, allora, ho estratto la matita dal taschino, ho cercato uno spazio libero nel taccuino e ho scritto “Il momento in cui mi sono seduto su una panchina e sono diventato anch’io collezionista di attimi”.

Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"
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Maurizio Gazzarri

Maurizio Gazzarri è nato a Volterra nel 1971 e abita a Pisa da trent’anni. È laureato in informatica e si occupa di trasformazione digitale della pubblica amministrazione. Nel 2018 è uscito il suo primo romanzo “I ragazzi che scalarono il futuro” edito da ETS: l’alba dell’informatica italiana in un racconto che mescola realtà e immaginazione. Il romanzo ha ricevuto il Premio Biella Letteratura e Industria, sezione Giuria dei Lettori. Scrive per La Nazione di Pisa articoli sulla storia dell’informatica e su progetti innovativi.
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