Fragori nella mente

Idria Pilogallo

06/05/2020

Sapete, è da giorni che ci penso. Basta uno sguardo, una nostalgia di occhi e di cuori vuoti da riempire. Un amore di sangue che si cerca e si trova, che avvampa nel petto eternamente e inesorabilmente per scoprirsi. Ieri sera ero tramortita dal freddo e dalla tensione nervosa mentre percorrevo le vie della mia città. M’imbattei in via Abbi Pazienza dove un clochard teneva stretta a sé una mascherina come fosse reduce di chissà quale battaglia. Fu strabiliante vederlo e percepirne la compiacenza nell’averne una. «Sarebbe l’ora di farla finita» rumoreggiò minaccioso. «Ora si vede e si guarda tutto» borbottò. Ero inchiodata da quella situazione, non sapevo cosa dire e cosa fare. Un cane nel cortile vicino sembrava vigilasse su di lui. Mi osservava, la bocca semi-aperta, irrequieto sbatacchiava e, dalla fame di proteggerlo sembrava avesse un morso esasperante. Pareva volermi attrarre ad un richiamo sondabile di stargli lontano. Tornai con la mente alla fragilità e ai tormenti più bui e col pollice all’insù gli risposi «Ha ragione.»
 
L’uomo si alzò con un sogghigno in volto e con le dita tracciò per aria la bellezza della vista che ci circondava. «Bella veduta, signorina» disse col suo accento marcato pistoiese e la voce che trasudava sarcasmo. «L’uomo si muta continuamente per il meglio, ci si auspica, ma non è sempre così.» Ho sempre avuto la convinzione che ciò che avevo appena udito fosse una verità assoluta, non essersi fermato di fronte a nulla e nessuno. La crudezza di quelle parole mi accompagnò fino a casa: il buio nella stanza e la solitudine mi avevano messo in agitazione. Mi destai trasportata da un sentimento strano. Un forte odore di terra invase la mia camera che, a finestre aperte, sembrava voler accarezzare quell’abbraccio di alberi che lì fuori si aggrappavano vicendevolmente gli uni ai rami degli altri, quasi a voler toccare il cielo. In quel momento avrei voluto soltanto che tutti fossimo sopravvissuti per sfamarci di quella bellezza.
 
La mia casa era circondata di verde e la mia stanza aveva una porta-finestra che dalla veranda andava direttamente in giardino. Quella notte lo guardai da lì. Presi immediatamente un plaid di pile per avvolgermi e sentirmi scaldata dal tempo che passava. Il mattino seguente mi svegliai col pensiero assillante di accendere la tv per sintonizzarmi con il notiziario delle otto. Anche la radio mi ricordava che tutto stava avendo un seguito disperato. Questo inizio folgorante mi immise nuovamente nel tempo atroce che stavamo vivendo. Mi fermai a pensare, guardai prudentemente dalla finestra della cucina, stava diventando pericoloso perfino uscire e le poche persone in giro sembravano brandelli marmorei. Ripensai al senzatetto della notte precedente. Quante volte ero passata da quella via senza accorgermi di nulla. Che strana coincidenza, pensai. «Calma» mi dissi. In quella solitudine la mia coscienza stava diventando seccante e, per allentare la pressione che iniziava ad infastidirmi, deviai l’attenzione sul colore da usare per spennellare la ringhiera del giardino. Arrivata alla scelta della tintura disposi un catino pieno di pittura mentre un tiepido sole scaldava la stanza e la gioia sembrava abbandonarsi in me lasciando indietro la mia faccia indolenzita per la troppa tensione. Dovevo far passare il tempo come meglio potevo. Stavo cominciando a collezionare nuove paure. Sentì i brividi.
 
Venni scossa da urla che provenivano da fuori: un tipo barcollava fino a cascare in terra pur di appropriarsi di una mascherina che leggiadra svolazzava. Le sue braccia erano appese nell’aria, abbandonate ad uno sguardo sprezzante. Lo riconobbi. Visibilmente scosso e tremolante. Traballava maldestramente e i suoi movimenti sembravano non fare altro che aumentare la sua disperazione. Contemporaneamente un déjà-vu mi investì, mi infilai i vestiti velocemente e uscì di corsa di casa. Non so se avesse avuto senso o meno farlo: in una frazione di secondo aneddoti, pensieri, ricordi e soluzioni si stavano snodando dentro di me. Alla fine era arrivato il pensiero magico, che tanti anni prima avevo cercato con tutte le mie forze di rimuovere: avevo faticato a non pensare più alla fuga ma, quella visione inquietante sembrava, ora più che mai, inseguirmi per strapparmi dall’orlo. Inaspettatamente mi sentì chiamare da un muretto. Mi fermai. Mi voltai e con una certa sorpresa mi accorsi che era lui. Mi avvicinai piacevolmente a scambiare due chiacchiere. Si chiamava Sauro. A tratti aveva un’aria agitata e in quei momenti il suo accento marcato toscano era dirompente. In quegli attimi abbassava lo sguardo. Rimasi per tutto il tempo in ascolto. Improvvisamente una folata di vento fece tornare indietro la mascherina che poco prima stava rincorrendo e così, in quel momento Sauro colmò un vuoto. Avrei voluto con tutta me stessa cercare di consolarlo: «Ora deve tenersi su» gli sussurrai. «Lo so» mi rispose. E, per assicurarsi di non avermi sottratto del tempo invadendomi, lasciò il posto e mi salutò.
 
Tornai a casa. Mi guardai intorno per controllare se la mia coinquilina fosse rientrata e accendendo il bollitore per preparare un te, il mio pensiero volò altrove. Accesi la radio, avevo voglia di ascoltare della buona musica. Sulle note di Dark Globe di Syd Barrett entrai in una zona d’ombra con la mente. Era buio quando una bambina di sette anni fu presa con la forza tra le braccia e abbandonò il proprio letto di corsa. Da quelle parti pioveva spesso d’inverno e le albe erano piuttosto fredde al punto che il vento e l’acqua sembravano una cosa sola che si volteggiava in quel silenzio assordante del cortile da dove con la madre era scappata. Corsero via. Lo stomaco frizzava, la velocità la sollevava dal seggiolino e tutto era così oscuro per Vania. Rimase per un po’ in silenzio mentre il sole sorgeva. Poi si addormentò e si svegliò che era pomeriggio. Una stanza quasi vuota le accolse, su una parete un crocefisso ligneo molto grande. Il posto le era familiare: anni prima, nel corridoio di quella casa, come al solito sorridente, c’era stato il nonno ad aspettarla.
 
Momenti preziosi quelli. Il vento fresco soffiava, il cielo terso di montagna lasciava trapelare i raggi del sole come fosse sollievo in giornate che, altrimenti in città, sarebbero state soffocanti. Brulicava dalla gioia però non avrebbe voluto rimanerci da sola. Si accigliò. Dall’esterno nessun rumore, l’acqua scivolava sui vetri delle finestre, il camino spento, l’aria fredda sui due piani. Si appoggiò rigidamente alle spalle della madre. Qualcosa la rendeva molto triste. Il fischio della teiera la destò, la fece sobbalzare e un attimo dopo la sua compagna stava davanti a lei. Intontita e debole fece per appoggiarsi al tavolo di cucina, quasi ipnotizzata. Sonori divieti balzavano acutamente fuori dalla tv accesa. Le paure di prima erano arrivate orami in cima ai suoi pensieri e il suo massimo terrore era quello di non poter più vedere Sauro. Non poteva perderlo. Non aveva ancora nemmeno dieci anni la prima volta in cui aveva iniziato ad abituarsi all’assenza. Ognuno aveva la propria storia alle spalle…
 
La luce si stava spostando e le strisce di sole toccavano la ringhiera da poco tinteggiata. Vania era stanca, fece un profondo respiro e rivolse lo sguardo all’amica come a volerle parlare. Ma qualcosa la deviò. Scrollò le spalle e si diresse in camera sua. Il tempo riprese a scorrere lento e si addormentò. Al momento del risveglio, prudentemente si affacciò alla finestra e pensò al suo riposo che stava diventando sempre più rumoroso. Fragori nella mente l’avvilivano. Scese i gradini che davano in veranda annegando in un profondo respiro che sapeva di pesco in fiore. Sarebbe mancato poco affinché questa meraviglia le sparisse davanti agli occhi: doveva fare presto. Dentro di sé risuonò la sua coscienza. E dentro di sé si posò un rapace le cui beccate nell’anima le fecero risuonare ripugnanti demoni che la facevano fervidamente sentirsi tra evanescenti nebulosità. Cosicché con quello spicchio di luce calante tutto le oscillò ossessivamente. Toni cupi e nebulosi, estasi per la rabbia ma dolore per la sua anima. Voci eteree e cavità afone la stavano lacerando. Varcò il cancello di casa di corsa, cavalcando i suoi angusti limiti e facendo scorrere copiosi ricordi tutti tacitamente oscuri e ostili. Oltre l’ineluttabile scoprì che con gli occhi aperti era più bello. Abbozzò un sorriso. Un remoto istinto la rincorreva fino a graffiarle le viscere se non avesse raggiunto quell’uomo. Sapeva di trovarlo nelle vicinanze della cattedrale di san Zeno. L’attrazione che lui provava per quel posto si spiegava perfettamente con la storia del suo rapporto con la vita e questo glielo aveva instancabilmente detto sul muretto giorni prima quando la sua voce si era alzata in un guizzo di sana rabbia prima che tornasse a cadere nella sua disperazione e solitudine.
 
Arrivata in duomo si scrutò intorno, in ogni angolo nascosto. Solo il rumore del vento attraversava quelle strade e quel cielo. Giunta sotto la loggia un conforto per la sua anima: un immenso graffito a terra raffigurava un mulino e un uomo che guardava da un’altura un paesaggio che si estendeva oltre un paesino di montagna. Istintivamente chiuse gli occhi. Ricordò. Nel suo cuore conforto, nei suoi occhi gioia. Era un assaggio di quello che lei desiderava tanto intensamente. Qualcosa era riuscito a passare, a toccare quelle corde che dal passato risuonavano nel presente. Si diresse in un batter d’occhio a casa e prima di entrarci esclamò tra sé e sé «Mi ci vorrà una doccia fresca.» Pensò a quando nelle giornate accaldate, nelle estati solitarie, il sole picchiava forte e si immergevano insieme nel ruscello, a quando di notte le lucciole abbagliavano il suo cuore e aiutavano il suo stupore a crescere come se si fosse trovata in un castello incantato. Piacevolmente quella notte l’aria aveva profumo di montagna.

Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"
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Idria Pilogallo

Idria Pilogallo nasce il 5 maggio del 1976 in Calabria. Per motivi di studio lascia la sua terra di origine per trasferirsi a Roma dove intraprende gli studi universitari in lingue collaborando anche con il collettivo di Lettere della Sapienza e con lo SCRITTOIO.ORG. Semplicemente curiosa ed entusiasta di scoprire quale colore avesse riservato la vita ad ogni suo giorno ha focalizzato l’attenzione sul piacere della scrittura. Dopo aver viaggiato tra Belfast, Dublino, Londra e Cile si trasferisce a Pistoia dove insegna lingua inglese e spagnola a ragazzi psichiatrici cercando, con passione, di trarne spunto per risaltarne i disagi sociali spesso messi nell’ombra.
 
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