Le contingenze del momento legate alla diffusione COVID-19 hanno portato, necessariamente, a ripensare la didattica scolastica e universitaria passando da quella tradizionale frontale a quella in modalità e-learning. L’utilizzo della teledidattica ha aperto un dibattito interessante tra docenti e ricercatori che ha visto confrontarsi sui media tradizionali e sui social favorevoli e contrari. Cercando di andare oltre il puro disquisire intllettuale questa esperienza ha acceso un nuovo interesse verso il precursore della teledidatica: Alberto Manzi. Il maestro negli anni Sessanta del Novecento attraverso la televisione si occupò di fornire un’istruzione elementare agli italiani divenendo un’icona tra la popolazione.
Alberto Manzi con il suo “Non è mai troppo tardi” si occupò del processo di alfabetizzazione di milioni di persone. La trasmissione andò in onda dal 1960 al 1968 e fu l’ancora di salvezza per chi non aveva potuto seguire un percorso educativo delineato fin dalla giovane età. Subito dopo il secondo conflitto mondiale, l’Italia provava, anche se lentamente, a ripartire e a ricercare una quotidiana normalità; il sistema scolastico purtroppo era stato fortemente segnato dalla guerra ed era quindi difficile trovare una collocazione, in tempi rapidi, a tutto il personale proveniente dalla “dilatata” scuola fascista. Manzi infatti non riuscendo a trovare una cattedra in una scuola elementare si trovò catapultato a “fare” il maestro in un carcere minorile, dove dovette affrontare 94 ragazzi tra i nove e i diciassette anni che, prima del suo arrivo, avevano fatto scappare altri quattro insegnanti. Attraverso un modello formativo del tutto particolare ed un sistema di coazione a ripetere riuscì, seppur tra mille difficoltà, a far avvicinare prima i ragazzi ai rudimentali processi di apprendimento dell’alfabeto e poi perfino a farli appassionare alla scrittura, quest’ultima nella mission dell’educatore diveniva la metafora della crescita sociale.
Riuscire a “recuperare” chi per natura veniva considerato come elemento perso dalla società, e quindi destinato a viverne ai margini, fu per Manzi una grande conquista che lo portò ad essere apprezzato anche in ambito accademico. I ragazzi “difficili”rimasero così affascinati dalle lezioni del maestro e con tenacia e dedizione, fondarono un giornalino, La Tradotta, nel quale denunciavano tutte le nefandezze del sistema carcerario dell’epoca. Attraverso i loro scritti riuscirono perfino a migliorare la loro condizione di vita all’interno della struttura di detenzione. L’operazione di Manzi risultò vincente perché si pose in un dialogo dialettico e paritetico con i suoi “alunni” riuscendo così ad accattivarsi la loro simpatia, secondo lui, riprendendo la massima Kantiana, “il maestro non può insegnare pensieri ma deve insegnare a pensare”.
Alberto Manzi fu anche un apprezzato autore di testi per bambini, basti pensare a “Grogh, Storia di un castor” o “Orozowei”. Ma sicuramente fu proprio il programma RAI
Non è mai troppo tardi a trasformarlo in un’icona del “Secolo Breve” italiano. Le sue lezioni televisive garantivano una formazione costante che permise a moltissimi italiani di poter accedere, anche grazie all’acquisto di materiale ausiliario edito dalla ERI (casa editrice RAI), alla tanto agognata licenza elementare. Solo attraverso una conoscenza minima dell’alfabeto e della matematica, il famoso “saper leggere e far di conto”, ci si poteva emancipare totalmente e divenire padroni del proprio tempo e della propria vita e soprattutto divenire amministratori coscienziosi dei propri beni. Il maestro utilizzava per le sue lezioni un grosso blocco di carta montato su un cartoncino ed un carboncino nero assieme ad una suggestiva lavagna luminosa, precorritrice dell’attuale LIM. L’idea della RAI fu subito vincente perché segnò la nascita, anche se in forma embrionale, dell’
e-learning in Italia.
Grazie alla televisione, anche secondo
Paul Ginsborg, si offrì alla popolazione un nuovo strumento di coesione e di condivisione sociale. Divenne il mezzo di diffusione di informazioni politico-sociali che prima erano affidate soltanto alla carta stampata. La comunicazione visiva fu un elemento imprescindibile per avviare il processo della grande alfabetizzazione degli anni del Miracolo. Dopo essere stato il “maestro degli italiani” ritornò per un breve periodo tra i banchi di scuola ma l’esperienza fu traumatica perché il ministero in quel periodo stabilì che fossero redatte delle schede di valutazione per i singoli alunni e Manzi non apprezzò queste nuove direttive perché secondo il suo credo pedagogico una valutazione negativa avrebbe segnato i ragazzi per sempre. A questo proposito decise di adoperare un timbro con la celebre frase: “Fa quel che può, quel che non può non fa” ma la
querelle non si risolse positivamente per il maestro. Negli anni successivi Manzi si dedicò a programmi di alfabetizzazione tra gli emigrati italiani in America latina per poi approdare nuovamente a RAI 3 nel 1992 con l’italiano per gli extracomunitari, un format in 60 puntate mirante ad un nuovo modello di diffusione della lingua, ossia per tutti coloro che per i motivi più diversi si recavano in Italia nella speranza di una vita migliore.
Parlare della figura di Manzi permette anche di soffermare l’attenzione anche sulla figura del maestro elementare nel processo di scolarizzazione del paese dall’Unità al Miracolo Economico.
La classe dirigente liberale, nel difficile percorso di unificazione politico-amministrativa, si trovò a dover affrontare anche il non semplice problema dell’alfabetizzazione di massa; non tutte le regioni versavano in una situazione florida come il Lombardo-Veneto o il Piemonte sabaudo, anche se quest’ultimo presentava alcune criticità nella selezione e formazione degli insegnanti. Nel 1861 le persone in grado di leggere e scrivere erano appena 6 milioni, troppo pochi, rispetto al numero totale di analfabeti, 17 milioni, e di coloro che erano capaci di usare la lingua italiana per
argomentazioni ed usi pratico-amministrativi. Lo stato “cavouriano” non riusciva ad avvicinarsi minimamente ai dati di Francia, Prussia e Inghilterra, mantenendo una situazione di parità con la Spagna e trovandosi di poche unità al di sopra dei dati provenienti dal lontano e sterminato Impero Russo.
Nonostante nel 1877 con la legge Coppino si fosse provveduto ad istituire l’istruzione obbligatoria, un nuovo censimento effettuato nel 1901 evidenziò che, nonostante la situazione fosse leggermente migliorata, picchi altissimi di analfabetismo continuassero ad essere registrati in ogni angolo della penisola. Al nord il 32% della popolazione era analfabeta, il 52% al centro e ben il 70% al sud e nelle isole. Questi dati assumono una maggiore rilevanza se comparati con quelli provenienti da altri paesi del vecchio continente (Inghilterra 3%, Francia 5% e Belgio 12%). Protagonista, spesso discusso, del processo formativo nel nostro paese fu il maestro elementare, una figura professionale che a metà Ottocento si presentava ancora molto approssimativa sotto il profilo istituzionale ed estremamente differenziata su scala regionale. Dopo l’estensione della legge Casati sul territorio nazionale persistevano ancora forti differenze tra i “maestri di città” e le “maestre di campagna”, quest’ultime erano preferite nei piccoli centri perché si trovavano molto al di sotto dei primi nella scala retributiva.
Accanto a queste figure “ufficiali” si potevano trovare anche i sotto maestri e tutti coloro che, pur non essendo muniti di patente, potevano accedere all’insegnamento a costi molto bassi per l’ente locale che doveva farsene carico.
Gabrio Casati, all’interno del suo progetto normativo, aveva previsto che i maestri per poter accedere all’insegnamento dovessero aver terminato il triennio della scuola normale anche se, per motivi di mancanza di personale, si stabilì che bastasse aver frequentato il biennio dell’istituto sopracitato. Con l’entrata in vigore della legge Coppino furono istituite anche speciali scuole magistrali rurali di durata biennale per formare in modo adeguato i futuri maestri delle campagne italiane; purtroppo anche questo tentativo risultò fallimentare, come si legge da alcune circolari ministeriali dell’epoca. Nei piccoli centri montani e di campagna, isolati dal mondo circostante, continuò a persistere uno
status quo ante in cui la formazione veniva affidata a chi aveva delle capacità minime restando legati alle consuetudini in vigore negli antichi stati italiani. Nel Piemonte preunitario per poter accedere all’insegnamento bastava essere in grado di “fare e sapere” quello che si doveva insegnare, in Toscana era sufficiente che una persona fosse di “un buon cattolico”, mentre al Sud l’abito da chierico garantiva l’accesso all’insegnamento. Una situazione diversa si poteva riscontrare nel Lombardo-Veneto dove, forti degli influssi prussiani, si era provveduto a regolamentare l’accesso alla professione con norme precise e chiare.
Sulla figura del maestro si sviluppò anche una letteratura, inaugurata da
De Amicis, volta a ritrarlo come l’eroe galante e portatore del progresso tra le piccole realtà isolate della “giovane” Italia. In
realtà il maestro, al di fuori di questo ruolo romantico, era un individuo fortemente legato alla quotidianità e sempre alla ricerca di nuove entrate per riuscire a sbarcare il lunario. Compiendo un salto cronologico, consapevoli che le esperienze della “belle epoque” e della scuola fascista necessiterebbero di una ricostruzione dettagliata e ampia, ci soffermeremo sull’ultimo stadio del processo di alfabetizzazione italiano, il Miracolo Economico. Negli anni tra il 1958 e il 1963 l’Italia, forte anche degli aiuti che dopo la seconda Guerra Mondiale erano arrivati grazie al Piano Marshal, visse un periodo di forte espansione economica che, per dirla con
Valerio Castronovo, inaspettatamente la portò alla ribalta sulla scena produttiva internazionale. Il calabrone tozzo e grosso improvvisamente era riuscito a spiccare il volo e a librarsi nel cielo come un’elegante farfalla. In quel periodo si segnò il boom delle esportazioni di elettrodomestici vero l’America, sancendo così la consacrazione del design e del
Made in Italy.
Questo moto espansivo portò ad una forte emigrazione interna che dal meridione, attraverso i famosi treni del sole, si spostò verso le ricche città industriali del nord. In questo processo migratorio si rese necessario anche offrire nuovi strumenti di emancipazione per tutti coloro che avevano lasciato la propria terra in cerca di speranza.
Paul Ginsborg ci racconta che i primi meridionali ad arrivare al nord furono costretti ad affrontare condizioni di vita al limite del sopportabile, schivati e spesso contrastati riuscirono a crearsi una propria esistenza ai margini delle città, prima costruendo baracche di fortuna e poi, con i primi guadagni, delle vere e proprie abitazioni. Una volta che l’operaio era riuscito a trovare una certa stabilità faceva “salire” i suoi congiunti per provare a vivere tutti insieme questo nuovo grande sogno italiano. Non preme, in questa sede, analizzare mutamenti sociali che il miracolo portò, ma cercare di indagare per quale motivo Alberto Manzi ricoprì un ruolo di primo piano in questa nuova sfida. Un paese in continua crescita doveva necessariamente aumentare il proprio livello medio d’istruzione. Solo così si poteva dare il via ad una grande “emancipazione scolastica” come poi avvenne con la riforma del 1969.
La popolazione vedeva nelle lezioni del maestro il sogno di quella vita sempre desiderata, la bellezza di poter essere finalmente artefici del proprio destino. L’esperienza di Alberto Manzi ha sicuramente segnato una linea netta e decisa con il passato proiettando l’individuo in una dimensione in cui, grazie alla propria forza di volontà, i sogni, anche quelli più impossibili, divengono realizzabili perché
non è mai troppo tardi per credere nelle proprie capacità.